L’altro giorno il mio amico Cile ha fatto gli anni, come sempre in questo periodo. Cile è
una storpiatura infantile venuta bene, in realtà di nome fa Severo. Non so se qualcuno ancora lo chiami così, anche perché non mi pare che lui lo sia, severo intendo. Un po’ lo era una volta e solo in un tempo e in un luogo precisi: i novanta minuti in area di rigore. Lì non era soltanto severo, era implacabile. Il pallone toccava una parte qualunque del suo corpo minuto e finiva in gol, come se avesse preso una scossa. Inzaghi non era ancora nato.
Ora che passa i sessanta, i sessantacinque, boh, il pallone lo tiene sotto la camicia in forma di panza, il trofeo di chi vive bene ed è felice, credo. Però, per tornare ai tempi, il Cile era uno spasso. Venne a Preonzo a giocare, frutto di un qualche mercato agreste che l’aveva portato fin lì dalla Verzasca. “Pensa che quando arrivai a Preonzo e vidi tutti quei campi, i contadini, le gerle, i rastrelli e le vacche, pensai che era una goduria, per me che in quel mondo ero cresciuto”. Non so se usò queste parole, ma il concetto era quello. Arrivò negli allievi che aveva a malapena diciott’anni e cominciò a segnare un gol dopo l’altro. A ogni punto, conquistava il cuore della squadra e della Lucia, che avrebbe poi sposato e con la quale oggi se ne sta in panciolle a Gerra Piano a rimirarsi.
Nella categoria A, attorno al ’70, gli allievi del Preonzo conquistarono il titolo di campioni ticinesi, e resti di quell’epica ancora risuonano. Il Cile fece venti gol? trenta? quaranta? Non si può più sapere, la memoria ingigantisce e diminuisce alla cazzo. Ma un altro giorno di gloria inaspettata si manifestò dieci anni dopo a Bodio, quando all’ultima possibilità scagliò di controbalzo un pallone arrivato dalla destra per puro miracolo. Era il titolo di terza divisione, festeggiato con il Mando che si beccò un pugno dal Bettosini perché “quello lì del parrucchino è tutto il pomeriggio che mi rompe la balle col campanaccio”.
Tra miserie e lampi, col Gaby e il Dany trovammo ancora il tempo di fermarci a ridere di soppiatto prima di far visita a un morto, perché il Cile imboccava la porta del cesso invece che la camera ardente. Cose così, senza importanza. Per il Cile c’era un’altra cosa senza importanza: “Non conta correre, conta arrivare in tempo”. E giù gol a raffica. Altro che giocatori tristi che non hanno vinto mai.
gene
Postilla
“A mi poca roba, ma chela poca tanta e bona”
Severo Fabretti
