tuttologia in direzione contraria

L’ultima domanda

L’ultima domanda chiuse tutto, anticipando il tempismo della morte. Quella questionepà, gilio, eni affiorata sulle labbra di mio padre, ridicola e tragica, seguì di alcuni mesi un’altra domanda sorprendente. Era solo una goccia d’acqua nel fortunale che lo lasciava senza sestante da un anno in qua. Ecco la penultima, dunque.

– Ma tu… Non eri morto?

La scagliò in piazza, come un Socrate che tornasse da un esilio senza notizie.

Ebbi la forza di non ridere e risposi che quello morto era suo fratello e che io stavo abbastanza bene, grazie.

Tra questa penultima domanda, posta in primavera, e l’ultima a dicembre, mio padre attraversò gli oceani della sua mente senza approdare più.

Ma prima, un prima che pesa ancora sugli adesso, c’era stata una vita con una sua limpidezza, alcuni temporali e i comuni rimpianti più o meno dichiarati.

Mio padre era del ’20, nato dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la Grande Guerra e prima della Seconda.

Non che io sappia molto della sua gioventù, ma la sua mano sinistra mancava del medio e dell’anulare, smarriti nella segatura dopo il taglio netto di una sega circolare che lui manovrava da apprendista, coscienzioso ma non abbastanza. Gli avrebbero reso, quelle due dita perdute, cinque franchi al mese d’invalidità che lui tenne da parte con puntiglio per quando saremmo arrivati noi figli.

Come conobbe mia madre, non so. Lei di Claro, non troppo lontana, più giovane di undici anni. Nel ’60 nacqui io, nel 64’ Gisella e nel ’66 Donata. Gisella è morta a sei mesi e della nostra famiglia oggi restiamo Donata e io. Gli altri sono tutti dentro un buco nel muro del cimitero.

Ma comunque. Mio padre.

La sua idea peggiore fu accogliermi come apprendista nella falegnameria che aveva messo in piedi con il socio Sergio; la mia quella di andarci. Stagioni di contestazione, e mi sembra solo fortuna l’essere riusciti a volerci bene anche nella completa incomprensione. Penso che quegli anni abbiano segnato più lui di me, non so, ma è così: io ho solo peggiorato alcuni miei difetti ribelli, ma lui è morto, quindi è probabile che abbia sofferto più lui.

Mi sembra, in fondo, un’epoca infelice, anche se allora mi pareva bella a causa dell’inganno della gioventù, la mia, e dei vaghi sogni che mi agitavano.

Ci siamo anche divertiti, cazzo, ma era un divertimento squilibrato, con lui che patriarcava e io che lo prendevo in giro senza manifestarlo, altrimenti finiva in tragedia. Per dire dell’austerità: non ho mai potuto bestemmiare in casa, anche quando sarebbe stata la miglior cosa da fare. Però mi piaceva star seduto nel furgone Volkswagen verde pisello con lui alla guida. Ne faceva d’interessanti: curve a gomito in quarta, arresti al semaforo verde e ripartenze col rosso, inzuccate e frenate improvvise in mezzo alla strada per l’impulso tardivo di allacciare le cinture. Un pilota scarso e imprevedibile, ma meno peggio dell’amico Sergio, che da parte sua era imbarazzato perfino a innestare la seconda e diceva che per guidare non bisognerebbe nemmeno avere il portamonete in tasca, che infastidisce.

Ma a pensarci, con me c’era sempre un’aria da pianta da raddrizzare. Non gli ho mai perdonato, e non lo farò mai, l’avermi punito per non ricordo cosa, un sabato qualunque, con l’obbligo di seguirlo non so dove facendomi mancare una partita del torneo scolastico. Invece, credo che lui mi abbia perdonato tutto, senza dirlo mai.

Non so se lui non abbia capito o solo fatto finta, ma non si accorgeva che io andavo verso altre spiagge. Non me ne fregava niente della falegnameria e del futuro della stessa, forse scambiava il lavoro fatto bene con dedizione.

Accettò male la mia scelta tardiva di mollare quell’impresa che per lui era la vita, e me lo fece pesare con piccole cose ricattose delle quali fingevo di disinteressarmi ma che mi pungono ancora oggi. Comunque, anche da giornalista, non incassai grandi sostegni, come non ne incassavo quando bambino e ragazzo leggevo libri in continuazione e a lui sembrava tempo buttato. Dico, non è che andavo al bar a ubriacarmi o in strada a rubare: leggevo, cazzo. Niente… Era così disapprovante che i dubbi sul tempo rubato venivano anche a me.

Altre cose buffe. A un certo punto smettemmo di fare colazione assieme perché a me il suo risucchiare il pane e caffellatte dal cucchiaio alle sei e mezza del mattino risultava insostenibile. Senza dirlo apertamente ma con una scusa laterale che non ricordo, altrimenti addio.

Esilarante anche l’afrore di mazza casalinga, quando con disciplina e costanza si mise a masticare uno spicchio d’aglio crudo il mattino per, diceva, livellare la pressione arteriosa. L’olezzo aleggiava in ufficio sul furgone e nelle case dove posavamo armadi finestre e porte. E guai a dirgli di smettere. Concesse di inghiottire un chicco di caffè, che sempre secondo lui annullava gli effluvi dell’aglio, e invece no.

Oppure. Quella volta che mi cadde a terra un pezzo di betulla con tanto di corteccia che lui aveva fatto essiccare con una pazienza irritante per due anni. Voleva farne un orologio a muro. Quando vide la corteccia a terra in mille pezzi, prese il restante anello di legno e come uno splendido discobolo lo lanciò attraverso la finestra. Mi tenne il muso per due giorni, ma forse di più.

Un’altra perla è quel pomeriggio in giardino, io in porta con i miei sei o sette anni e lui a battere rigori. A un certo punto calcia il pallone di gomma, lancia un urlo e poi inveisce contro di me con l’accusa di avergli tirato un sasso, e pensate un po’ a come avrei potuto io, non dico moralmente, ma materialmente, davanti a lui con le mani protese per parare il tiro… Era solo che gli si era strappato un polpaccio.

Questa dei ferimenti e degli infortuni è sempre stata una controversia. Si picchiava un martello su un dito, era colpa mia; batteva il cranio sugli architravi, era colpa mia. Certo, a me scappava da ridere ogni volta, forse era quella la colpa mia.

Poi venne il momento che riuscimmo ad avere le nostre vite separate. Era felice di essere diventato nonno e con mia figlia, ovvio, esternava tutto il suo lato giocoso e amorevole. Non mi arrabbiavo ormai più.

Sempre più lontani, cioè, sempre più lontano io che avevo cominciato quella vita nomade che pratico tuttora, ci rilassammo mangiando pizze e gelati. Mia madre era morta da più di dieci anni e lui se l’era cavata, tra cibo bruciacchiato e teletext a manetta, con grande forza e dignità, anche se non era più un ragazzino e scavalcava gli ottanta. Aiutato da Donata, viveva nella casetta nuova a fianco della sua.

Un giorno imprecisato e fulmineo, come quando scende la sera e di botto è notte, cominciò a confondersi.

Non voglio spiegare questo tormento.

Dirò solo che alcuni mesi dopo la penultima domanda lo portammo al ricovero, non c’era soluzione. Era agosto o settembre, non ricordo bene. Fu accolto, in particolare, da una signora della sua età che lo vedeva come una luminosa gioia in quel posto triste ed efficiente. In effetti, mio padre a sprazzi brillava ancora. In meno di sei mesi, in febbraio, avrebbe spento la luce, invece. E la signora ancora resisteva, ma in lacrime.

Un po’ prima, arrivò il giorno dell’ultima domanda.

Era verso Natale, durante una di quelle visite che mi facevano ridere e star male. Mi disse che era stata lì una donna, che è così brava e tutta una serie di apprezzamenti. Gli spiegai che quella donna è Donata, che io mi chiamo Giorgio e che noi due siamo i tuoi figli.

– Cosa? Ho figli io?

 

gene

 

Postilla

Conto su com l’é nacia, sénse bosardaat.

Il becaària


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