La vita non è sempre un lavorìo, a volte ci sono cose memorabili, come il sabato e il calcio.
Quel pomeriggio a Mombasa era sabato e si giocò a calcio, senza scherzare. Il Roby mi ha scritto che è ora di farne una storia, e l’immagino, lui che è gourmand, nel pregustare gesta disastrate tra l’epica e la farsa. Le figure leggendarie che animarono quella partita di calcio hanno poi cercato per anni di scampare alla retorica dell’uomo bianco e conquistatore.
Forza.
Dei sei che eravamo, ustionati a vario grado fin dal primo giorno di sole equatoriale, cinque giocavano a calcio con un certo successo in patria, con vittorie sulla Roma e sul Lodrino; uno invece, il Massella, era inadatto al controllo di qualsiasi cosa rotolasse, specialmente se rotonda. Per completare la squadra, un indiano giulivo di cui non ricordo il nome ma che una sera a casa sua aiutammo a vuotare tutto quanto, alcuni masai imborghesiti e un quartetto di venditori ambulanti. Questi ultimi, reclutati in spiaggia dopo lunghe trattative e l’acquisto di un bidone di olio di cocco, intrasportabile – probabile che stazioni ancora intatto nella stanza del Togn e dell’Alfio, cugini di secondo grado e dediti a ritorsioni reciproche per futili motivi. Oltre a questi due, al sottoscritto e all’inservibile Massella, c’erano il Roby e il Cicio. Ai rinforzi (!?) locali, solo soprannomi funzionali: Marietina, Ahmed, e vari Rafiki e Bwana, che al chiamarli si girava mezza città. L’indiano abbandonò la contesa prima di cominciarla.
– Ma… siamo sicuri di volerlo fare? – chiese il Togn con l’indolenza da membro dell’African Safari.
Il dubbio era fortissimo, solo il Massella non poteva capire, dal basso della sua inettitudine, cosa volesse dire giocare una partita su un campo incastrato tra baracche di legno, mattoni riciclati e lamiera, attraversato da una mulattiera e circondato da una folla che al nostro apparire cominciò a urlare Mafia! Mafia! Mafia! Cazzo, un’onta impossibile da lavare, ma non c’era né modo né convenienza per star lì a spiegare che noi eravamo tutto meno che italiani.
L’Alfio scacciò le perplessità con un “a m’interesa mia” e ci preparammo tra lo stupore dei locali per la questione delle nostre vesti di ricambio, loro che con la stessa giubba o camicia affrontavano decenni.
Quello della partita di fine-vacanza era un rituale alla quale si dovevano sottoporre tutti i
villeggianti. Alcune squadre di bellinzonesi erano passate di lì prima di noi, senza portare a casa nemmeno un pari. Questa specie di diaspora della nostra regione era nata quando il Gianca, padre del Roby, aveva mollato l’impiego statale alla galleria del San Gottardo per fare impresa lì. Tra inviti, conoscenze e avventure, organizzava ferie per tutti, e tutti giù in Kenya, con l’aria di quando si va in Mornera in teleferica.
L’arbitro non dava idea di essere equidistante neanche nel riscaldamento. Stava in mezzo agli eroi locali dando indicazioni su come bombardare di pallonate il muro della scuola, il solo ad avere l’onore del cemento. Due secondi dopo il fischio d’avvio, mentre tentavo un dribbling interlocutorio nel cerchio di centrocampo, un treno nero con le scarpe numero 47 o più, mi spedì in mezzo alla mulattiera, tra il ruggito della folla. L’arbitro, neanche una piega. Mi tolsi la ghiaia da sotto la pelle delle ginocchia, mentre il gioco fluiva e loro segnavano l’1-0.
– U ghé mighi l’ópsai? – urlo il Cicio, ottenendo una salva di Mafia! come risposta.
Se ne fece una ragione e cominciò a randellare come sapeva lui. Randellavano tutti, dopo aver compreso che l’arbitro l’avrebbe buttata all’inglese, e cioè al “Vale tutto, tranne toccare la palla con le mani e tirare la maglia”. Il Massella era sconvolto e dovemmo toglierlo per affidarlo all’Ahmed, che come coach era in grado di farsi rispettare dagli esagitati di casa. Gli altri “oriundi”, i masai, i Bwana e i Rafiki erano trattati da rinnegati, anche se solo a parole.
Il Cicio pareggiò con un tiro impossibile sul quale il portiere si buttò a terra tenendosi le mani sugli occhi e perdendo il cappellino della Mancini & Marti che gli aveva dato il Gianca e che lui teneva anche nel sonno. Ci vollero cinque minuti di estenuante diplomazia per convincere quello che l’aveva raccolto a ridarglielo senza niente in cambio.
Alla fine del primo tempo, l’indiano fece comparire birre – che laggiù chiamavano Allelujah per via della stagnola dorata attorno alla canna – e finalmente la folla si chetò.
– Vuoi vedere che se la fanno sotto? – buttò li il Togn.
Alla ripresa, le ostilità tornarono ad aumentare, sia in campo sia fuori. Se la facevano sotto un cazzo. Gomitate, calci, spintoni, senza una sola parola di dissenso e con entusiasmo liberatorio. Non si trattava più di giocare a calcio, solo un immenso e unico schivare e dare. A un certo punto, credo che in campo ci fossero trenta o più giocatori di varia età. Tutti scorticati dalla ghiaia e dalle pedate, talmente sporchi che si faceva fatica a distinguere i bianchi dai neri.
Una mischia interminabile, con l’Alfio che si difendeva a colpi di kung-fu amatoriale, si concluse con tre o quattro giocatori dentro la nostra porta, insieme alla palla. Gol valido, non si discuteva più.
Ma poi, vai sapere quale istinto suicida gli fosse passato per la testa, l’arbitro ci diede un rigore che forse aveva visto un altro giorno e su un altro campo, ma che lì certo non c’era.
Mafia!Mafia!Mafia!
– Se ci hanno dato questo rigore, poi la pagheremo – disse il Togn, che suggerì di sbagliarlo apposta per non sfidare l’ospitalità.
L’Alfio lo prese per il collo. –Tiri e segni, porca puttana!
Il Togn, che temeva l’Alfio più di tutta la gente di Mombasa messa assieme, bucò la rete, col portiere che al solo vedere la rincorsa dell’avversario scappò, tenendo ben stretto il cappellino.
A dieci minuti dalla fine, lessati dal caldo e dall’umidità, loro erano cotti più di noi. Ma non doveva accadere il contrario? Misteri africani. Del resto, non era mai successo che una squadra di Muzungu resistesse a quel modo. Si arresero, così, come sedersi al bordo dell’Oceano a contare i granelli di sabbia.
Fecero disperati mucchi umani in area, buttando tutto in corner o dove capitava. Ogni volta, il pallone tornava solo dopo lunghe trattative.
Un pari poteva andare bene, anche per la salute.
Però l’Alfio, mai persuaso per natura, lasciò la sua porta di corsa sull’ultimo dei mille corner che il Roby stava per tirare. L’Alfio, la palla, me stesso e un gruppo smisurato di giocatori avversari arrivammo insieme nello stesso punto, sul dischetto del rigore più o meno. Preso da chissà quale entusiasmo, rientrò pure il Massella, dicendone quattro a tutti per non essere da meno. Ma a colpire fu l’Alfio, che aveva traversato il bush per arrivare fin lì e non voleva sentire ragioni di facciata. Di testa, con un suono che dicono di non aver mai più udito da quelle parti. La palla finì nell’angolino. Qualcuno pianse, ma la maggioranza s’inginocchiò, mentre noi ci guardavamo bene dall’esultare.
Gli ultimi due minuti li passammo sulle ali del tifo, che si era spostato tutto dalla nostra parte e si sarebbe capito perché.
Per la prima volta, quel campo era stato violato, e la presero con sportività: restammo in scarpe e mutande, il resto se lo prese la torma di bambini che invase il terreno a fine match.
Mezzi nudi, impolverati e sanguinolenti, prendemmo il bus, tra gli sguardi di disapprovazione delle signore. Già bello che non ci hanno ficcati dentro per oltraggio al pudore, che laggiù non si scherzava su queste cose e credo che oggi si scherzi ancora meno.
Il Massella passò la notte con gli incubi. Noi a bere di tutto fino a crollare addormentati al Bora Bora, senza neanche riuscire a vedere lo spogliarello.
gene
Postilla
C’è qualcosa dell’Africa che non ti lascia mai. Un profumo, un’idea, un gol.
