La sola cultura popolare che possedeva e permeava il piccolo lembo di terra era quella contadina. Oggi vedete solo polvere, ma non è sempre stato così. Prima dei tempi infelici, la popolazione cavava dalla terra tutto ciò che serviva per vivere con dignità semplice, dal lino alla canapa, dalle patate alla segale. Per non perdere un solo centimetro di quei coltivi inclinati in tutti i modi, il bosco andava tenuto lontano e pulito, in modo che desse più castagne che fastidi. Distese di fieno maturo e nelle piane il giallo del granoturco. Della legna si traeva il fuoco che scalda e che cuoce, e poi travi, scandole, porte, zoccoli, carri e ruote, slitte per l’inverno, pali per la vigna e recinti per il bestiame. Le pecore davano lana, capre e mucche il latte e il formaggio. Maiali, galline, conigli nelle aie. Gatti per tenere lontani i topi, cani per l’aiuto al pascolo. Somari e muli per viaggiare e trasportare.
Leggende e racconti erano l’informazione, bocce carte suoni e canti come sport e musica. Ogni villaggio aveva una scuola, un ufficio postale, un prestino, la latteria, perfino una banca di cui fidarsi e a cui affidarsi. Certo, non ce n’era per tutti, molti morivano di stenti o di parto, dentro la fatica di una vita agra come solo l’innocenza sa essere. Altri andavano lontano in cerca di fortuna, ma con la cultura del paese nel cuore. Nel mezzo dell’Atlantico si struggevano con la Valmaggina o il Maggio, scappando da letamai e rastrelli, aspettando un giorno sconosciuto in cui sarebbero tornati a fare le stesse cose dalle quali scappavano. Le incognite del viaggio erano lenite da storie, ricordi, emozioni o da un riconoscersi dello stesso luogo e darsi le mani.
Poeti e scrittori non mancarono, e nemmeno pittori e musicisti. Per loro c’era sempre il rispetto per chi inventa e la diffidenza per chi non ha molti calli sulle mani. A loro dobbiamo le testimonianze resistite alla lesione del tempo.
Il progresso che scacciò la guerra, ma con grande circospezione iniziale, esplose nei Sessanta e il popolo cominciò a confondersi. Avanzava di nuovo il bosco, s’asfaltavano strade, decadevano le grà, chiudevano le botteghe e aprivano mercati. Le città lontane erano a portata di mano, per lavoro e per svago. Nascevano lavori nuovi e le schiene, non più piegate da gerle e cadole, si curvavano su carte e scrivanie. Sparivano capre, apparivano biciclette; sparivano mucche, apparivano auto. Non più greggi in fila su sentieri di terra e pietra, ma treni e code sull’asfalto.
La gente scriveva con fervore, avendo imparato quasi tutti e quasi tutto, nascevano giornali uno dopo l’altro, ma gli uffici postali chiudevano o si riunivano in un solo villaggio un po’ più grande degli altri. Le banche cominciavano a non più pagare interessi sui conti di risparmio e a prelevare percentuali su ogni deposito o prelievo. Il cibo cresceva sempre meno nei campi e per soddisfare l’appetito arrivavano pomodori dall’Olanda o vino dall’Argentina. Anche i campi stessi affonfavano sotto distese di case e strade.
Sempre più bambini, sempre meno scuole. I ragazzi partivano per studiare altre culture, quella del piccolo paese scivolava nell’oblio.
Tutto questo progredire incontrollato e famelico andò avanti per decenni e dopo il Duemila
cominciò a ruotare su stesso, come una vite nel legno, fino a spaccarsi nella torsione di pretese e nell’attrito rovente dei soldi che non bastavano più e mai. Il governo aveva vuotato le tasche al popolo nello stesso modo in cui i sovrani imponevano decime ai sudditi millenni prima. Per la maggior gloria, si dispersero miliardi per grandi opere e vie di comunicazione che avrebbero dovuto favorire il turismo, e quindi soldi a palate. Funzionò in qualche modo desolato fino al giorno che nessun viaggiatore si fermò più nel piccolo paese perché non c’era più niente da vedere, niente da sentire, niente da capire. Né cultura, né natura, né gente con la quale sedersi a mangiare, raccontare, ascoltare, suonare, amare.
Il lavoro cominciò a ridursi fino a sparire, mentre boschi e cemento avevano già fagocitato anche le migliaia di parchi giochi vuoti di gioia e di creature. Nessuno cantava più e nessuno nemmeno raccontava. Il silenzio del cielo grigio era spezzato solo dal rumore dei veicoli a motore che sibilavano come serpi sulle grandi strade, ordinatissime e rivolte altrove. Esseri ipnotizzati da schermi vagavano senza meta, guidati nel nulla da parole senza costrutto.
Fu allora che alcuni affilarono le armi e cominciarono un’altra guerra, senza una memoria a cui rendere conto.
gene
Postilla
Ecco l’agnello di dio, senza un posto dove stare
Francesco De Gregori
