Alla stazione, il Cicio scese ancora saldo sulle gambe, ma la salita verso il passaggio a
livello si fece tragica. Il centinaio di metri che mia mamma, ciclista instabile, pedalava con una certa scioltezza, a lui risultò impervia. Alla prima barriera, si appoggiò adducendo scuse e si capovolse sui binari.
– Zio cane, questo buio infame – disse, da terra.
Lo trascinai di là. Il treno passò indifferente.
Lo stradone vuoto e buio stava tutto nella nostra memoria di ragazzi. Nella mia più che altro. In quella del Cicio non so cosa ci fosse, forse le tette del Forum 2 o le birre della Bavarese. Gli presi il braccio sinistro.
– Aggrappati e cammina, lazzarone.
Figure da via crucis, il Cristo io, la croce lui. Per fortuna nessuno frustava, se non l’aria instancabile della Riviera.
All’altezza del campo da calcio di Claro, annunciò che voleva bere. Il bar più vicino stava a due chilometri e chiuso, altro che bere.
Sul ponte di ferro volle guardar giù tra le sbarre e anche se non si vedeva un cazzo lui scorse piroghe.
– Andate a lavorare! – urlò all’equipaggio immaginario, mentre pisciava.
Lo lasciai dire e fare, tenendolo per la cintura.
Oltre il ponte, nella boscaglia vicino alla cava di pietra, ci spaventammo da soli e corremmo fuori fino a incontrare di nuovo lo stradone. Lui cadde almeno tre volte, io neanche una.
Ricomposti alla brutto cane, restava la tirata, con le luci del paese al limitare. Era meglio passare per i prati, così nessuno si spellava mani e ginocchia sull’asfalto.
In piazza rinsavì, balzò in sella al motorino rifiutando aiuti e s’infilò a luci spente nel cuore della notte. Alzai le spalle.
Il giorno dopo, sul tardi, suo padre mi disse, indulgente:
– L’hai presa secca ieri sera eh? Capita, siamo stati giovani anche noi…
Il Cicio la scampava sempre, il maledetto.
gene
Postilla
Là dove c’era l’erba ora c’è una città
Adriano Celentano
