tuttologia in direzione contraria

Ordinaria amministrazione

Il carretto della legna, con due ruote e timone, era la sola àncora che tratteneva l’Avo carrettodall’andare alla deriva sullo stradone. Oltre alla presa delle gracili braccia mie e del Dani. C’era sempre questa storia dell’andare a raccogliere legna ovunque, oltre i confini dei prati, verso argini e morene dense di ginestre e rovi.

– Criscto, am va più i gam dadré – s’esprimeva l’Avo con l’ironia di chi accetta l’invecchiare come un divertimento pieno di sorprese.

Il Dani tirava il carretto, l’Avo si attaccava alla sponda, io tenevo l’Avo per un braccio. Macchine, ne passavano due all’ora, ma guidate da tizi pericolosi come il Demarchi o il Zeprian. Alla vista del primo, con la sua auto grigia in fondo alla tirata, ci si dava una voce e coll’Avo traballante ci si spostava oltre i paracarri, mentre quello sfrecciava occupando abusivamente carreggiate contromano, come se fosse il padrone dell’asfalto. Il Zeprian era anche più imprevedibile perché affetto da epilessia, al punto di essere finito in un burrone dei Pirenei e risalito illeso. La macchina non la trovarono più e gente locale gridò al miracolo perché da laggiù non era mai riapparso nessuno, mentre lui buttava lì uno stoico “Ordinaria amministrazione”.

Noi, per tornare al problema del trasporto-legna, a volte dovevamo riparare nei prati mollando il carretto, ma i due calamitosi piloti riuscivano a non centrarlo mai. Quando svoltavamo al Pontaséll, nella stradina dei Campì, potevamo darci in salvo dal misero e letale traffico, solo che ci toccava costeggiare una roggia e coll’Avo pericolante quel solco di due metri non era meno del burrone del Zeprian. Di pausa in spinta, si giungeva alla stalla.

– L’ére bè oro, ao c’a sii stacc, fegnanti? – interrogava l’Ava, seduta sul primo scalino intenta a tessere calze di lana, con lo scialle in testa a velare i lunghi capelli bianchi. Sempre la stessa domanda, e la proferiva con tono misto di scherno e rimprovero. Ma quando l’Avo le rispondeva con una semplice e definitiva bestemmia, lei s’inalberava.

– Vargogno! A gh’è i canaja!

Come se i canaja, i bambini, con le bestemmie non godessero e non si esercitassero.

Stipato lo scarso e sudato bottino nella tettoia, ci sedevamo sotto il caco a mangiare pane e fontina, o tilsiter. L’Avo si accasciava nella poltrona, accendeva il toscanello e sogghignava alle reprimende della sposa.

Liberati dall’impegno, noi tornavamo alle selvatiche scoperte del mondo. Ava e Avo stavano là fino all’ora di cena, che era come la colazione perché consisteva in pane inzuppato nel caffellatte.

Appena il tempo di mollare la partita in piazza all’arrivo del Demarchi in derapage fuori controllo e poi, al triplice fischio finale del Pà che ordinava il rientro, a casa anche noi. Ordinaria amministrazione.

 

gene

 

Postilla

Il mio smartphone è dell’anno scorso, è vecchio, me ne compri un altro, babbo?


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