Là dove c’era il Ciliegio ora c’è il Faggio. Ma per un pelo. Fino a venerdì tremavo all’idea di doverlo strappare alla sua nuova terra conosciuta in novembre, che gli pareva così ostile da obbligarlo a tenersi attaccate ai rami le foglie dell’anno prima, secche e rattrappite, come un rimprovero alla mia violenza. Le sue povere gemme marroni parevano trattenere solo il gelo dell’inverno in attesa del niente.
Per farla breve, avevo idea che per malaccortezza il trapianto e la potatura l’avessero fulminato.
Ma in quel sabato di maggio così bello, con le visioni rivierasche del mio paese lontano,
anche il faggio bavonese ha deciso di smettere il broncio. Sono salito inquieto alla casa della Maddalena, con il Meo a tallonarmi impegnato in progetti di teleferiche e treni, e mi sono fermato davanti a quella pianta giovane e già solitaria: le gemme marroni s’erano schiuse a giovanissime foglie seghettate, verdi come il trifoglio d’Irlanda.
Con timore ne ho presa una tra le dita, lo stesso timore di quando prendi in braccio la figlia nata da un minuto. Era di velluto. E così tutte le altre. Le ho contate, cinquantuno foglie, poche meno dei miei anni.
Forse per la gioia di avermi visto felice nella dolcezza di quel giorno speciale, il mattino seguente, ubriaco di rugiada, il Faggio aveva dato fondo alla sua giovinezza ingigantendo le sue straordinarie foglie.
Per festeggiare, e per consolare il Meo che già immaginava il dolce suono della motosega, riponendo a fatica l’idea, ci siamo concessi una birra davanti alla pianta adolescente che forse sorrideva.
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Postilla
Dell’importanza del faggio parla anche il naturalista latino Plinio che racconta come, nel bosco sacro che circondava il tempio di Diana sui colli Albani, esistesse un faggio che il sacerdote, custode del tempio, venerava quasi fosse la personificazione della dea di cui egli era lo sposo. Lo baciava, l’abbracciava, dormiva sotto la sua ombra e gli versava vino sul tronco come a una vera moglie.
