Gli si era incastrata nella testa quella cosa, che prima era un’idea fugace, poi si era
trasformata in un dolce desiderio e verso le quattro del pomeriggio arroventò in passione. Stava impastando malta da ore, senza pausa, fantasticando sulle morbide forme che il roteare dell’impasto inventava e mutava a ogni giro. Il mattino, il giovane muratore scattava a ogni richiesta di un secchio pieno, ma nello scorrere rovente delle ore la solerzia s’afflosciava nella libido. Ormai non sentiva che languore nelle ossa, come se le vene irrorassero oppio. Mescolava e palava, riempiva e agganciava il secchio con la meccanica di chi ha la testa irrimediabilmente altrove, alle rotondità, alla pelle vellutata, alle sue labbra che assaporano, al succo vibrante sulla punta della lingua. L’attesa ormai una febbre, il tempo un lento nemico, il lavoro un tormento, la sua anima un abbandono. Vennero le sei, si lavò le mani con cura, cercando di tenere a bada la frenesia, poi inforcò la bicicletta e attraversò il paese come se dovesse correre a spegnere un fuoco, quel fuoco che lo divorava. Saltò di sella al volo, balzò sugli scalini, infilò la porta aperta correndo in cucina e la vide, luminosa e provocante come se non attendesse altro che le sue labbra su di lei. Governando l’impeto con maestria, la morse con lentezza soave, indugiando sulla lieve peluria, e solo dopo un tempo infinito d’animalesca lussuria riuscì a ripescare un pensiero razionale.
“Che albicocca, ziocane”.
gene
Postilla
t’amai senza riserve
sulle albicocche acerbe
Eusebio Nasturzi
