In Patagonia, qualche tempo fa, ci imbattemmo in un tipo piuttosto vecchio, che calafatava barche. Incuriositi dal lavoro, tentammo un paio di domande nello stentato spagnolo da diporto. Rispose circa allo stesso modo.

– Ma toca de riparar del sal del mar estes barcos.
Commentammo tra noi in dialetto, su come lo spagnolo ci assomigli. A quel punto, il vecchio chiese se eravamo italiani.
– No, ticinesi. Suizos.
Sul suo viso si dipinse uno stupore da nostalgia.
– Me chiamo Giuseppe Angelini, Josè. – si presentò, in quell’italiano che sentiamo dai sudamericani, che da qui in avanti tradurremo per comodità. – Sono di Bellinzona, ma non ci sono mai stato. Mio padre partì nel 1912, attraversando il mare senza sapere per dove, se non da qualche parte americana. Io sono nato nel ’25 a Buenos Aires, siamo cresciuti alla Boca, avete presente quel posto dove giocava Maradona? Ecco, lì.
Ci raccontò che lui non era un bullo, ma qualche campionato regionale l’aveva combattuto. – In piena polvere e sole pallido, nelle domeniche pomeriggio quando non dovevo spingere il carretto di papà con le cianfrusaglie che aggiustava. Campi impossibili e senza misure certe. Di sicuro c’erano solo i calcioni di tutta quella gente che popolava la Patagonia cilena attorno a Punta Arenas.
Padre rigattiere, lui pescatore, e ora che le ossa pungevano dalle fatiche accumulate, a calafatare. A ottant’anni anni, ancora al lavoro dalla mattina alla sera.
– Ragazzi… Oltre ai nativi del luogo, c’erano slavi di ogni provenienza, italiani, spagnoli, francesi. Molti di loro scappati dalle grinfie dell’Europa nazifascista e disposti a tutto pur di sopravvivere. Senza noi emigranti, qua mangerebbero ancora con le mani – spiegò ridendo e facendo gesti per spiegare la natura selvatica delle genti di laggiù.
Ci eravamo guardati attorno, nel viaggio alla Chatwin, e nelle commoventi distese magre d’erba gelata si poteva facilmente immaginare una vita durissima per uomini alla ventura. José ci disse che il padre gli parlava in dialetto, ma che fuori di casa la lingua franca era lo spagnolo imbastardito. – Così mi è rimasto questo miscuglio, ma si capisce vero?
Alla richiesta di farci sentire qualcosa di dialetto, rispose con un oscuro “Am ragordi quasi noto”, che ci fece sobbalzare.
– Ma sei proprio di Bellinzona, o di qualche paese vicino?
– Sono di Preonzo, a due passi da Bellinzona. Non come qua che le distanze si misurano in giorni. Io non ho mai visto quei posti, ma il papà mi raccontava e io una qualche idea me la sono fatta.
Quando gli dissi che anche noi eravamo di Preonzo, mollò il secchio con dentro quella specie di catrame vegetale e ci abbracciò. Forse pianse.
Andammo avanti per diverse ore, sulla riva del mare artico di fronte alla Terra del Fuoco; gli dovemmo raccontare tutto del nostro paese, per rinfocolare le sue vecchie idee. Poi tornammo al calcio.
– Giocavo all’ala, molte volte dovevo andare oltre la riga laterale per schivare le entrate dei back, cattivi come guanachi in calore. Pochi gol, tanti passaggi. Poi un giorno mi stufai. Ora guardo la televisione, ma i cileni non hanno una grande squadra, né di club né la Selección. Per fortuna sono argentino. Ci guardano sempre male, ma quando l’Albiceleste gioca contro di loro s’infilano la coda tra le gambe.
Sghignazza.
Chissà come la prende oggi, che il Cile ha vinto due Copa America battendo proprio l’Argentina in finale, sempre ai rigori. Non abbiamo più saputo nulla di lui, ma pensiamo che sia ancora lì, sullo stretto di Magellano, catrame in secchio, cazzuola in mano. Josè Angelini, forse l’ultimo di una parentela preonzese estinta.
gene
Postilla
La Patagonia! È un’amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un’ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più.
Bruce Chatwin
