Questo vuoto cresce e mi tarpa. Prigioniero nella mia stessa Patria, senza nemmeno l’onore di essere considerato un nemico, penso alla natura rifugiata di Apolide. Non riconosco più le strade, la gente, la musica, le parole. Da manifesti e schermi, donne e uomini mi invitano a fare questo e quello, dandomi del tu per iscritto o a voce, come se ci conoscessimo da sempre, imperturbabili al fatto che invece io non li ho mai visti e che non mi interessano le loro facce e i loro imperativi:
Vieni da noi, c’è tutto. Vota la lista quattro. Prega le leggi di Dio. Ascolta. Allacciati.
Fermati. Abbonati. Iscriviti. Registrati. Condividi. Respira. Divertiti. Canta. Taci. Firma. Paga.
Mio padre mi insegnava la Polis, a vivere per lei e dentro il suo grembo, a difenderla, ad amarla, ad accogliere i cittadini, ad ascoltarli, a discutere con loro, a litigare con loro per costruire insieme un mondo migliore e comune dentro la democrazia. A convincere l’abbiente della condivisione con l’abbietto.
Mio padre ha attraversato l’Ade tempo fa, da allora navigo in questa Patria che si è fatta opprimente e cattiva con i deboli e i malati, severa con i poveri e gli emarginati, inflessibile con i peccatori, avida di tasche già misere, che incolpa e castiga con spartana disciplina. Sono Ulisse senza nave e senza equipaggio.
La casa dove sono nato è lontana, dall’altra parte di qualcosa avvolto nella nebbia del disamore, eppure so che là resiste ancora una parte del mio cuore, tra figlie, sorelle e tombe. Forse loro, oltre quelle Colonne d’Ercole, si sentono meno sole e riescono a resistere per davvero, lo spero e credo sia così. Che difendano anche la parte separata del mio cuore, magari germoglia.
Qua, alla vigilia della Festa Nazionale, io mi amareggio di perdite e tradimenti.
Domani parleranno della Polis, come dal 1291; diranno di amarla o almeno di rispettarla, e intanto faranno prigionieri il dubbio, il dissenso, il coraggio, la diversità, il futuro, la giustizia, la pace, la speranza, la fratellanza, la comunanza, l’uguaglianza. Tante “anza” soffocate in ampollose allocuzioni, seguite da dosi immense di cibo e bevande.
Prigioniero nella mia stessa Patria, la natura rifugiata di Apolide è la soluzione del distacco. Senza bandiere, senza croce bianca in campo rosso, senza inni, senza eroi, senza preghiere, senza microfoni, senza immagini, senza fedi, senza dèi, senza missioni, senza divise, senza monumenti, senza fuochi, senza roghi, senza guerre.
Iconoclasta, incatenato, eppure libero.
31 luglio 2016
gene
Postilla
apòlide agg. e s. m. e f. [dal gr. ἄπολις -όλιδος, comp. di ἀ– priv. e πόλις «città, stato»]. – Persona che, avendo perduto la cittadinanza di origine e non avendone assunta alcun’altra, non è cittadino di alcuno stato.
