Consumata un’altra partita e alcuni pezzi preziosi di cartilagine, col Mansueto ci incagliamo sull’ultima birra possibile, nel solo bar demodé e aperto nei dintorni di questo presente annacquato. Non diremo il nome dell’antro, ma la sera è stellata e la zia da guardare con quella nostalgia dei vent’anni che solo l’alcol o la sconfitta fanno riemergere cazzutamente dall’oblio in cui ci confiniamo per questioni di comodità. A un certo punto, dalla terrazza si precipita il Bulo vaneggiando di un topo nel bar.
– Non è che hai bevuto troppo zio?
– Non fare il cretino, l’ho visto, è lì sotto.
Al che, mi alzo, sposto la panca in pino cembro, ma del topo nessuna traccia.
Il Bulo scuote il giubocs, ma niente, nessun animale. Poi passa a quel totem illuminato che è il gioco delle freccette e lo malmena furioso, cristonando.
– Si nasconde quel bastardo – dice, riferendosi al fantomatico ratto.
– Già già – ribadisco serio, ma non tanto.
– Smettila! C’è! L’ho visto!
E andiamo avanti a spostare mobili. Entra anche il Lobia, giovane neopunk, convinto che il Bulo non sia uno che menta. Anche lui, avanti a scovare angoli.
A me viene in mente una cosa e la dico al Bulo stesso, ormai fuori orbita. – Non è che magari quel topolino ha una chiavetta sulla schiena e si prende gioco di te?
– Non prenderti gioco dei miei sentimenti.
Nel mentre, il topo, grande una bella spanna, scatta e schizza fuori nella notte, infingardo.
Ecco. Brutto non credere a quelli davvero attenti alle minime cose.
gene
Postilla
Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.
Jean Cocteau
