
Un concerto a Sonlerto nel cuore della Valle Bavona non è come a San Siro, c’è meno gente e i musicisti sono dilettanti, occhio alla parola perché ha un certo peso. I musicisti siamo noi sei, tra cui io che canto e ogni tanto suono una chitarra elettrica che sembra una Stratocaster ma è una Vort (?!) tedesca assemblata in Cina e calibrata a Locarno, e che costa duecento franchi, compresi custodia, accordatore, amplificatore, tracolla, plettri e corde di ricambio. I miei colleghi sono attrezzati con roba molto migliore, ma i miei colleghi sono amici e quindi li perdóno – vi perdóno Rena, Raoul, Max, Marco, Azzurra. Il concerto si tiene in un posto che si chiama Mate y Moka, una volta era un grotto-reminiscenza degli anni Settanta, ora è un b&b vegetariano con un giardino vasto agghindato di girasoli e giocattoli, con un carro da fieno vicino al dismesso campo di bocce. La padrona – ma il termine è uno sproposito – si chiama Rodriguez, un talento dell’immagine che si è data alla fuga dalle pressioni. Con lei, il giorno prima, siamo andati a Prosito a caricare l’attrezzatura sul suo camper (un furgone da piastrellista riadattato) e a comperare fagioli e carne per il pranzo agratis (a pancia piena si ragiona meglio, parola di Kit Carson).
Di buon mattino, dato che io sono già lì perché la Maddalena ha una casa in paese e sono andato a dormire verso le tre e allora tanto vale alzarsi prima che l’alcol ottunda in fase rem, verso le nove ci diamo dentro coi fagioli e la carne e con i fagioli senza carne (per i vegetariani e altri impavidi). Arrivano i miei amici e tra un mestolo e un cavo montiamo tutto. Poi mangiamo. Rodriguez non si aspetta molte persone, e invece ne arriva un centinaio, ma così assortito che sembrano mille. Un popolo che sembra aver lasciato indietro ogni velleità di futuro e si aspetta un presente bello, un pomeriggio d’agosto che possa sembrare, non so, qualcosa di scordato. Ci sono bambini sporchi di terra, bambine premurose, uomini mammi, donne attente e alcuni vecchi un po’ disincantati nel vedere la ferraglia amplificata (ma non lo sanno ancora che sarà amplificata). Manca il Meo che è su a casa intoppato con le scarpe, ma ogni tanto lo sentirò che a distanza di duecento metri, in cima all’erta, innalzerà stentorei Bravi! o Bravi musicisti!. Lo sento dentro il Meo, è una parte di me, ma non vederlo mi amputa.
Oh, e poi. Sono arrivati anche in tanti dal nostro paese patagonico oltre le montagne, mia zia, mia cugina, mogli e morose, i fratelli La Bionda con cui abbiamo giocato a calcio e sbeffeggiato l’esistenza sciatta, figli di qualcuno e di qualcun altro.
Cosa ci fate voi qua?, chiedo, già sapendo la replica.
Non ci eravamo mai stati, tanto valeva, con quel poco da fare, rispondono. Siamo così noi del villaggio patagonico, anche distanti di anni e miriametri, lo spirito sulfureo ci lega tutti contro tutti.
Sulle prime note ancora imperano i fagioli negli intestini e nelle bocche, c’è ancora quella disattenzione degli slalomisti tra la pentola e i girasoli, quella cura un po’ chiusa di chi piantona l’ombra come una salvezza. Il repertorio può allarmare, Pugni chiusi, o commuovere, Canzone per Sergio: ma viene dal lontano 1985 ed è abbastanza sconosciuto da suscitare una lenta e ferma curiosità, prima dell’attenzione.
Devo concentrami sulle parole, che non sono mie ma vorrei che lo fossero, però posso volgere lo sguardo all’idea di mondo che mi sta davanti, in pace e libertà. I miei amici suonano con una felicità che sento alle spalle: la profondità del basso, la locomotiva della batteria, la chitarra argentina, il piano che volge a un jazz, la voce di Azzurra nuova. Facciamo ranzate, che risultano normali e il Lio, che è venuto su con la tenda in spalla dice bellissimo così, e allora gli mando un saluto anarchico che lui ricambia da sotto un nocciolo e mi dà gas.
Quando alla fine della vita del carcerato che si innamora di una donna che stende i panni vicino al mare, quando si spegna l’ultima nota sulla parola Blù, il piacere del popolo è una nave che ci imbarca tutti e non può affondare. E a me, con l’abbigliamento del Fuochista, scendono lacrime e lo sforzo per il groppo in gola incrina la voce.
Infine, piove, però solo dopo aver messo via tutto, come se ci fosse un cielo buono solo per noi. Ma al riparo dei gazebo ci uniamo tutti quelli che ci stanno, in piedi e seduti, e l’incanto è tale che i discorsi di ringraziamento escono sciocchi e commoventi, e si ride, si ride e si beve, e si canta ancora alla rinfusa. Il mio ultimo pensiero, dopo aver abbracciato il Meo transfuga, dopo aver risalito il paese trascinando i piedi fino alla casa della Maddalena, è proprio per quel posto lì, in una valle che spesso dimentica di portarsi avanti e che oggi è tornata a una sua origine fanciulla. Qualcosa abbiamo fatto.
gene

2 risposte a “Una giornata fanciulla”
Salutami la Silvana. Continuo a prometterle che andrò a trovarla e mi accorgo di essere un bugiardo.
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Sore?:-)
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