tuttologia in direzione contraria

Nessun Komorebi è possibile

È ancora presto e i gabinetti della stazione sono chiusi, neanche col franchetto li puoi aprire, come se fossero boutique per gente che si alza alle dieci e prima non ha bisogni. Mi avvio verso quello del viale, con la vescica in modalità canotto. Uh, è aperto. Non mi andava di andare in un bar e bere un altro caffè, già i nervi affiorano. In quel cesso lì non serve la monetina, è libero, ma è il solo nel centro della città.
Ho appena visto al cinema l’ultimo film di Wim Wenders, Perfect days, che è meraviglioso nella sua semplicità, tutto incentrato su un uomo, Hirayama, che a Tokyo pulisce i bagni pubblici e quando si mangia il suo panino al parco scatta ogni giorno una foto con una macchinetta analogica alle fronde di un albero che si stagliano nel cielo. Un gioco di luci e ombre che in giapponese è chiamato Komorebi.
Ci provo anch’io, seduto in piazza come Hirayama, naturalmente con il telefonino, a fotografare le foglie dei platani nella controluce azzurra del cielo di gennaio. Non per collezionare, ma per provare a capire e magari trovare un nome come quello giapponese, che qui non esiste. Hirayama aspetta una settimana per vedere i risultati delle sue foto, le fa sviluppare da uno Zimmermann di Tokyo. Invece io le vedo subito e mi fanno cagare, digitali e piatte, con colori artificiali.
Quindi, al proposito, mi scappa la cacca e per curiosità vado al cesso della stazione, pago, entro ed è sporco. I gabinetti di Tokyio sono invenzioni architettoniche, diffuse e brillanti, pulite dentro e fuori, tutti gratis. Qui invece sono scostanti. Come siamo spesso scostanti noi, quando non siamo sguaiati. E questa mia città è cento volte più piccola della capitale giapponese. Anche se trovassi un termine come Komorebi, che definisse il gioco di luci e ombre, lo terrei per me piuttosto che darlo in pasto alla svogliata decadenza del franchetto lercio e avido.

gene


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