Mi avevano invitato a una fiera di libri, ma non volevo andarci. Anche l’anno precedente e l’anno prima e l’anno prima ancora mi era arrivato l’invito, e all’ultimo avevo sempre rinunciato. Stavolta avevo preso il treno, in preda a un malessere inquieto che mi faceva slittare il paesaggio dai finestrini al fegato. Avevo bevuto la sera prima e con la giacca stazzonata ero uscito dal bar all’alba, senza dormire, e da lì in stazione, dove altri rimasugli della notte cercavano un posto sbilenco.
Quando scesi a El Clarito era pomeriggio, le nuvole di piombo toccavano terra. La coincidenza per Arielo, dove c’era la fiera, aspettava su un binario tra gli ultimi, vicino ai gabinetti con la luce blu, che serve per non far trovare le vene a chi le cerca. Non ci sarei andato alla fiera. Presi un bus per Anteproneto, che invece già si affollava. Lo sapevo dal mattino che per scacciare il malessere sarei dovuto tornare lì. Mi addormentai sul sedile, ma solo per un attimo.
A Anteproneto scesi nella piazza, niente sembrava cambiato dall’ultima volta in cui vidi mio padre; le persone che sostavano o scorrevano via sembravano uguali, anche se molti di loro non erano neanche nati quando me ne andai guardandolo rimpicciolire nel lunotto impolverato.
Sapevo dove cercarlo, mio padre, Francisco Juan: al cimitero, dove se no? A piedi tra i vicoli e le strade, finalmente smaltita la nausea nella caligine rovente dei gas di scarico, arrivai al cimitero che stava aggrappato agli ultimi casamenti, come per non cadere nella sterpaglia della campagna incolta che inghiottiva l’orizzonte. Il cancello era chiuso e mi scappò da ridere: non un’anima viva. Avrei potuto scavalcare, anche nelle mie strane condizioni di scrittore sedentario che ricordava di avere avuto gambe e braccia allenate.
Dopo un po’ di minuti che ticchettavano nella mia indecisione, mi trovai di fianco un uomo. Non mi ero accorto subito, non avevo sentito i suoi passi, forse distrazione, forse rispetto per il silenzio.
– Chi cerca? – mi disse con voce da fumatore.
– Un amico – risposi.
E lo guardai. Anzi, lo vidi. Eplinio, ma doveva essere morto nel ’79. Aveva gli stessi solchi sulle guance e i capelli chiari di cinquant’anni prima.
– Non mi racconti balle figliolo. –
Mentre si accendeva una sigaretta, pensai che sarebbe stato meglio andare via, che il viaggio fin lì non avesse senso, non lo avesse mai avuto, non lo avrebbe mai avuto. Ma lui mi strinse un braccio.
– Da quanto tempo è morto suo padre? Cinque anni? È ancora troppo poco, non posso dirle tutto, ora. Forse al prossimo incontro, ora no. –
Non avevo chiesto niente, niente che già sapessi, niente che volessi sapere.
– Non sarà benvenuto, ragazzo, lei avrà bisogno di me per capire. –
Buttò la sigaretta nell’erba gialla ai piedi della cinta. Lo guardai attraverso il filo azzurro dei suoi occhi immutati, poi mi girai verso il cancello, senza pensare a niente. E qualche attimo dopo, o qualche secolo, Eplinio non c’era più. In un grigiore di nubi mosse, che minacciavano tempesta oltre il cancello chiuso, andai via.

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