
Mio padre mi raccontò questa storia nel 1976, quando stavo per debuttare negli allievi del FC Claro.
Una rivoluzione, certo, strappare un prato alla morena glaciale, tra ginestre e betulle. A Preonzo. Per giocare a calcio, capisci? No, non capisci. Non è come adesso che tutto è bonificato e con l’autostrada sono stati costruiti campi da calcio nuovi, con gli spogliatoi e le docce e tutto. Ero un ragazzino di undici anni quando li vidi giocare in Campirasc, iscritti alla federazione e non più fuori alla Gere a tirare pallonate senza regole precise e porte fatte coi noccioli. Una rivoluzione, non amata da tutti, ma una rivoluzione non è mai per tutti. Quando la morena divenne Campirasc, che nel nostro dialetto è un luogo al limitare dei prati fatto di sassi e rovi, i vecchi lo volevano indietro per farci pascolare le vacche, o tagliare il fieno. Ah no, lo difesero i ragazzi e oggi è ancora lì, perfetto e solo per giocare, anche se non è più la stessa cosa con tutti i passatempi che distraggono i giovani. Quando ho avuto l’età per giocare anch’io, si appressava la guerra. Mi alzavo alle cinque a governare le bestie, poi partivo in bici per Bellinzona a lavorare come apprendista falegname, e quando tornavo la sera dovevo ancora andare in stalla. Poi dopo cena studiavo un po’ e alle nove a letto, che il giorno dopo era uguale, per sei giorni a settimana. Ma la domenica, ah, finalmente. Va bene, mi toccava la messa, mia madre era la sola a credere in Dio ma si impuntava con tutti noi minacciando disgrazie. E il pomeriggio, era quasi da non crederci, il calcio, el fotbal. Qui, in Campirasc, ma pure a Claro, Lodrino, Osogna, Biasca, Arbedo, in bicicletta o a piedi, poi con qualche motocicletta e in auto, due in tutto, solo negli anni Cinquanta. Quando già avevo trent’anni andammo fino a Lugano, per vincere una finale e salire in Seconda Divisione, Preonzo contro Ponte Tresa. Un giorno incredibile, ma te lo racconto un’altra volta. Adesso voglio parlare della grande rivoluzione del calcio, che abbiamo giocato anche in tempo di guerra, ovunque, in aeroporto, in caserma, quando tornavamo in licenza. La pace vinse e il fotbal la aiutò. Ci cambiavamo a Ca’ dal Geni e ci lavavamo nella fontana della piazza. Le maglie erano a righe rosse e verdi, cucite dalle donne, da curare come reliquie. I palloni? Di cuoio conciato che a prenderli di testa c’era quasi la certezza di squarciarsi la fronte e allora mettevamo delle bende attorno al capo per proteggerci. Se guardi le foto sembriamo indiani. Le scarpe pesavano, dure e con i chiodi, altro che tacchetti cambiabili. Io non ero tanto bravo con i piedi, ma giocavo ragionato e di testa le prendevo tutte. Poi la passavo al Luciano o al Bruno, che sono andati anche in A e in B con Bellinzona e Pro Daro, e loro sì che erano una potenza. Il tuo zio Luciano era un po’ come Giggs, per fare un paragone con adesso; il Bruno aveva la forza e la classe di Rummenigge. Quelli alti come il Peti li mettevamo in difesa, quelli cattivi come il zio Gino a fare i terzini, i back. Non facevamo tanti passaggi, ma funzionava. Quante volte ci siamo sentiti predicare che era una perdita di tempo, che bisognava lavorare, pensare alla casa e alla famiglia, ai soldi e che bisognava occuparsi di fieno e bestie. Ma non abbiamo mollato e siamo fieri di aver giocato, in opposizione a una vita di fatiche e guerre, che poi si muore lo stesso senza nemmeno ridere. Lo so che non capisci, per voi è tutto facile, scontato: i boys, i sabati liberi, le scarpette leggere e le maglie sgargianti. Per noi è stata una rivoluzione, la sola per cui ne è valsa la pena, senza morti e con solo qualche ferito per una pedata fuori posto. E poi tutti a bere un bicchiere di vino in Pasquei, anche con gli avversari. La rifarei adesso quella rivoluzione che ha dato senso allo stare qua, nei giorni più belli della mia vita. Un’ultima cosa: non tornare a casa dicendomi che sei stato ammonito.
Aggiunta – A Balerna fui ammonito e a casa mi accompagnò il Giacinto. Spiegò a mio padre che ero stato bravo e che un’ammonizione non è la fine del mondo. Mio padre non ne fu convinto e la domenica mi mise sotto con la vanga a fare un buco per piantarci un melo.
gene
