tuttologia in direzione contraria

Il Carlin e la Dama di Cuori

Il Carlin è aperto di nuovo con sorpresa e cautela. Spalancato l’ultima volta che ancora era sprangata la Cortina di Ferro. Dentro, asserragliati, resistettero alcuni resti umani legati alla preistoria, con i pantaloni militari e la canottiera, perché era tardo autunno e caldo. Si sarebbe poi approssimato un inverno gelido di coscienze, yes, e svuotato di fumo. L’ultima volta echeggiava Fiume amaro, cantato tra i tazzit, mentre la Grecia ricominciava a stare bene e qua si preparavano un paio di gite comunitarie, Nizza e Basilea, che però non c’è tempo di raccontare. Perché adesso c’è da tornarci dal Carlin e diopo’ se ci andiamo, urge, in questo sei di maggio qua (il cinque meglio di no, con le ricorrenze nefaste che quella data si trascina).
Hanno rimesso le stesse piastrelle in graniglia, il vaso delle ciliegie sotto grappa, il giubocs. La Mary profuma ancora esotica nel fiore dei trenta che varrà sempre la pena di vedere per primi e senza concorrenza alle sei di mattina. La Mary che viene dall’Argentina ed è ancora in lotta adesso per le Malvinas, anche se sono sprofondate con Videla e Tatcher nell’Atlantico artico e non presentano più tracce sul mappamondo neanche a cercarle col lanternino, non fosse che per le storie di Osvaldo. La stessa Mary che, tra il platonico e l’impudico, si è raffinata al corso di rumba e ha le labbra color del sangue appena rappreso.
Dalla saletta di là arriva un “Bala chel sett che te gà noto!” in La, un’ottava sopra a un attacco di tosse da Gitanes mai imborghesite dal filtro. Di qua, col Gabi in braghe di gabardine, ci appoggiamo al tavolino sul quale è inciso il

viva la prita!

col falscet e di origine ignota, attraverso la quale tutti nascondevamo la timidezza e adesso meno.
Ricomparse anche le Be-Bi, che sono poi le specialine dall’etichetta rossa e blu inutilmente travolte dal progresso. Due per me, due pel Gabi, con la paura folle che finiscano prima di cominciare. Vederle portate dalla Mary sconcerta che è un piacere. Mi sa che stavolta, con questa riapertura, sarà difficile affondare di nascosto le mani nella grappa delle ciliegie come quando il Carlin stava di là a perdere a carte con errori di valutazione enormi.
Ma il giubocs? Da quale punto del cosmo sono tornati i 45 giri? Sta andando Devil gate drive con la Suzi Quatro appena salpata dall’Isola di Wight, senza scarcagliare neanche un po’. Bisogna mettersi in fila, il giubocs ha una scaletta di ferro e prima vengono su i dischi prenotati dagli altri e il tuo chissà a quale turno. La televisione come al solito non lavorerà fino alle sei di sera, quando comincia Lavoricchio, che però non guarderà nessuno perché i bambini sono ormai più vecchi del Mago Walter, e più tardi gli allunaggi che si attacchino al cazzo, abbiamo già lo spazio qua con le stelle e i pianeti popolati. Tipo il saturnino Ligio che al suo nome non ha mai aderito e ancora si consacra alle furibonde battaglie contro i parenti quando lo pregano di non bere. O il Vezion che si intasca di sfroso le castagne sparpagliate sul tavolone e poi dice che lui ne mangia una, massimo due (ma la piraca è gonfia).
A chi?! Il giubocs – che memoria incomparabile – la spara nella versione che muove in parecchi al pianto, quella virginale di Francuccio Noto, un infante che forse già intuiva una vita di amori frantumati e penitenze in sovrappiù. Magari il vivalaprita l’aveva incisa lui, sul tavolo intendo. Non s’è mai saputo.
Comunque c’è un orizzonte di fumo a venti centimetri dalle piastrelle in graniglia, e dentro si strofinano i piedi al ritmo di Soleado e vanno in cerca della Mary come nella nebbia che vela poetica le scogliere di Dover, o la Scimi da l’Omm (la montagna delle pecore disperse).
In quel limbo eroticonirico, si estende la raucedine del Senesio, che gracchia un suo “Pup di fochi!”, forse all’indirizzo del compianto Massimo Pini. Svolazzano come spettri Re di Coppe, el Dapiù; Regine di Picche, le Peppe; Fanti di Fiori, i Ganassa; Sette di Quadri, Iori. Carte di un gioco ormai scappato di mano. Le Peppe si aggrappano a tutti, a turno, suscitando il terrore di rimanere senza la sola donna buona, la Dama di Cuori, la Mary. Non si intravvedono i Ganassa e el Dapiù; qualcuno s’accontenta del Iori, passaggio per un quintin immaginario. Dal fondo una voce saggia paragona il peso in grammi del cervello della gallina con quello del Jean; un’altra invita a volersi bene fino a quando ci vediamo, un paradosso nel fumo catramato di paglie e toscani.
“Ociesse! Ora ci siamo!” e questo è il Mapis, lo sanno anche i bambini.
“Oregiatt impostoor in primi firi!” echeggia nella cecità del tutto e qui non sai chi e cosa.
Sono sparite le Be-Bi e le ciliegie. Ammutolito il giubocs. Divelte le piastrelle. A terra le carte. Il tavolo con la prita arde fino alla cenere. Una rumba accompagna fuori la Mary e il codazzo di cuori. La nebbia dirada e davanti a noi c’è il vuoto, di nuovo senza Carlin. Ora Theodorakis suona da un altrove
È un fiume amaro dentro me, il sangue della tua ferita, ma ancor di più è amaro il bacio…”.
Siamo sullo stradone. Il Gabi alza come un fulmine la mano destra, e io rispondo con lo stesso gesto da pistoleri. Due Donne di Picche. Due Peppe che ci colpiscono al cuore.

gene


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