
Il campo di bocce è di sabbia nera come al Panathinaiko e quattro atleti corposi scagliano attrezzi e rimostranze, due spericolati a torso nudo, uno col bonetto, e il quarto quasi normale. Le ragazze sembrano tagliate fuori anche qui al Crot dal Damian: servono ai tavoli oppure stanno mute di fianco ai compagni che sfoggiano camicie domenicali. I bambini? Quelli che non tirano pallonate al palchetto disertato dai musicisti stanno attaccati alle socche con il moccio irrilevato. I gelati si sciolgono, i barbera si arroventano, la ghiaia si infila nei sandali e infiorescenze cadono a decorare i piatti. Si sta comunque fuori per compagnia e anche perché dentro è buio e pieno di foto di morti più o meno cari e un po’ angosciano anche se non tornano indietro. Le padrone del Crot e delle foto, che si possono deridere ma meglio di no, hanno un coté intransigente che batte a sorpresa anche se hai lasciato lì una centella.
Io che, a quanto pare, ho compiuto i vent’anni il nove dell’anno scorso me ne sbatto le balle, ma in molti hanno smesso di venirci per uno o più dei motivi descritti sopra – le bocce, i bambini, la ghiaia, le foto, le padrone, le infiorescenze eccetera. Ma è che stanno alle loro casette, a lato del prato verde e ripetono gli stessi discorsi ogni domenica, perfino stupefatti.
Non che qui al Crot sia atterrato Marx, o Franco Zorzi, ma la mescolanza dei ceppi familiari produce fermenti che saltano fuori dalle teste come la coca (cola) calda dai bicchieri. Busciano retaggi di confini violati, dimestichezze sospette con i preti, tradimenti da sottoportico, tresche per sentito dire, limiti cognitivi dei paesi confinanti.
Mia figlia ride.
Dei quattro che lottano con le bocce si occupa un gruppo di competenti che avrebbero fatto diversamente quasi tutto – Tè sbajò! Tiri ti aloro, merdon! Va a ponn, no? Ecco, at l’ere be’ dicc! Va a cheghèe!
Sul muretto di fondo luccicano bicchieri che si svuotano a ogni tornata, prima che il contenuto prenda fuoco tra il nervoso e l’agosto.
Quando hanno detto che nel 2024 saremmo tornati indietro di quarantacinque anni ci hanno creduto circa solo quelli dell’urina come rimedio. Ma un po’ ci speravo, e un po’ no. Poi è successo.
Così, quella che era la mia figlioletta trentatreenne e abitante a Berlino, è tornata indietro di soli tredici anni – mistero – e ora siamo coetanei. C’è anche lei qui al Crot, perché dopo la regressione rischiava di restare incastrata nella parte est a mangiare scatolame radioattivo e a vedersi sequestrare la chitarra, e allora ciao. Si diverte per cose e persone che non poteva avere visto prima, ma che conosce per via dei racconti miei che si ripetevano al ritmo rincoglionito di Sanremo. Mia figlia conosce fatti raccontati da me di cui io non ho memoria.
Sembra una specie di disastro.
Anche perché mi è arrivata la lettera che dovrò andare a scuola reclute nel ’26. Ma ho imparato bene prima dell’indietreggiamento collettivo, veh: obietterò in qualunque modo e semmai scappo a Gariss.
Il giorno va sfinendosi. Tra tavoli impiastricciati di vaniglia e naroi, da dove si guardano ormai con noia le ultime controversie al Panathinaiko; tra contumelie e riprovazioni, pesantezza di spirito per una domenica che andrà a fare la puttana col lunedì che aspetta indurito; tra i dinieghi delle padrone a profferte di genere; beh, tra tutto, è che a un certo punto si può anche smettere.
Ecco, tra tutto, mia figlia mi fa.
– Ora che siamo entrambi ventenni, almeno non ti vedrò morire prima di me.
gene
