
Il ragazzino scende di sella al volo come aveva visto fare al circo dall’acrobata vestito di bianco, che rideva e piangeva. Davanti lui fremono gli ultimi arbusti che annunciano il mare. Poggia la bici a terra e dalla sabbia a pulviscolo si ritrova in pochi passi sulla compattezza quasi molleggiata della battigia che gli rinfresca i piedi nudi. L’acqua va e viene con dolcezza, come se gli dicesse ciao, che bello averti qui. L’orizzonte si fonde con il cielo, le gradazioni d’azzurro arrivano al sole già alto. Lo sciabordio profuma di sale e gli ricorda la pasta della Mam, chissà dove sarà ora la Mam? Lo penserà ancora? Darà ancora il bacio sulla bocca al Pa’ prima che vada nei campi? Rimboccherà ancora le coperte alla piccola Doni? Avrà ritrovato Gisella e la pace?
L’aria mediterranea gli ripulisce le narici, anche se, ragazzino com’è, non sa che quello è il “mare di mezzo”, e va bene così, la geografia è sparita e bisognerà rifarla con altri nomi. Forse toccherà a lui, nessun altro essere umano è in vista. Qualche legno scorticato biancheggia arenato. Il ragazzino sente una gioia sconosciuta per quel vuoto pacato.
Cammina, raccoglie una piccola conchiglia che non ha nemmeno bisogno di essere appoggiata all’orecchio per sentire il suono del mare perché il mare è lì e gli parla.
“An n’ho vidù da rop”. Ne ho viste di cose. La voce del mare è velata di una leggera malinconia, ma non è dolente. Snocciola nomi che al ragazzino sono sconosciuti, ma qualcosa di indefinito gli smuovono al centro della fronte: Alessandro, Afrodite, Odisseo, Annibale, Michela, Panagulis, Giorgia, Troisi.
A passettini, lascia indietro orme leggere che il riflusso cancella con cura, come se rifare il mondo cominciasse da lì; raggiunge il punto lontano in cui ha scorto un brillare che non gli pareva quello specchiato dall’acqua nel cielo. Cammina, allora, ma senza fretta, sente che pericoli non ce ne saranno, che l’acciaio e il fuoco sono tornati nel mistero cupo dal quale erano usciti per travolgere e incenerire, implacabili.
Raggiunge il brillio. È una bottiglia di vetro chiaro che sembra prendere il fresco sulla sabbia. La raccoglie. Dentro vede che c’è un foglio arrotolato e allora toglie il tappo di sughero, capovolge la bottiglia, il foglio si sporge dal collo. Il ragazzino si sfrega la sabbia dalle mani, lo estrae e poi ne slega il delicato nastrino azzurro che è come l’ultima chiave prima di un qualcosa che non si può sapere.
Il ragazzino, ora è seduto, spiega il foglio e le parole gli si svelano:
“A te. Ti aspettavamo alla fine dei millenni, quando anche l’ultima stilla d’odio sarebbe stata risucchiata nel cosmo. Sei qui, adesso. Possiamo ricominciare. Benvenuto.”
Il ragazzino sposta lo sguardo a sinistra, dove forse è levante. A piccoli passi, ancora lontanissima, riconosce una figura di ragazzina, lo sa che è una ragazzina anche se è solo una virgola nella luce immensa. Arriverà a lui, ma senza fretta e lui la aspetta in piedi, non sa se ridere o piangere, come l’acrobata. Ma c’è tempo, la giornata è giovane.
gene
