
Alla sera sono contento del muretto che ho tirato su in giornata e così, dopo un sonno popolato di oggetti in volo che non ricordo, risalgo con il sacco degli attrezzi. Ma il muro è crollato a terra. Della calcina che lo teneva in piedi non c’è traccia. Alcuni corvi osservano da terra. Gli alberi hanno perso le fronde e restano in piedi come ossi grigi. Di questo passo, il monastero non verrà mai su. Ma lo vogliono e allora ricomincio, pietra su pietra e calcina fresca. Forse era meglio tracciare la mulattiera prima di cominciare quest’opera voluta dalla Diocesi. Noi del paese avevamo molti dubbi: troppo scoscesa e franosa quella parte di montagna. Perfino il Romanin, un macigno a forma aguzza, sta in bilico, forse per misericordia. Ma loro, prelati e architetti, lo vogliono. Forse per insegnarci a credere in dio. Gli è che il muro è a terra, smembrato come in origine, i sassi tornati a terra, incassati tra loro come a impedirne lo spostamento. Sembrano fratelli che stanno bene solo alla rinfusa.
Ricomincio e passa la giornata. La sera arriva tardi e così sono riuscito a mettere in piedi il muretto, con qualche corso in più. Scendo a casa, arrostisco la polenta di ieri con un po’ di grasso, un bicchiere di vino con acqua. Mi siedo sulla soglia, passa el Brusu.
– Com l’é nacia?
– A ma tocò rifèe tut da bel neu.
– Al saseve sgià.
– Aloro chel te domanda a fann.
– Iscì.
Se ne va, torno dentro, mi metto a letto. Il mattino ricordo tracce di sogno: cazzuole che volano via dal secchio, rocce arcuate che incombono, io che scappo mentre sorvolano uccelli neri con le prede nei rostri. Non mi piace. Risalgo. Il muro non c’è più. I corvi osservano. Gli scheletri sono ovunque. Rifaccio da capo. Ridiscendo a sera.
Per sette giorni faccio e rifaccio e tutto si erge per poi crollare nella notte. La calcina svanisce.
El brusu pone sempre le stesse domande, e io offro uguali risposte. Ma la sera del settimo giorno aggiungo:
– A vaghi su più.
– L’ere be’ oro – risponde lui accompagnando con un ghigno il roteare della mano destra.
Arrivano dalla città, salgono. Architetti e prelati mi danno dell’incapace, uno dice che rubo i soldi della chiesa. Ne ho abbastanza, scendo, vado a casa, mi siedo sulla soglia e mastico un po’ di tabacco. Magari passa il Brusu. Infatti passa.
– Pup di fochi, scapa.
– Parché?
– U vegn sgiù.
La notte è la fine del mondo. La montagna sembra franare tutta insieme e le scintille delle pietre che cozzano tra loro accendono il cielo. I denti sembrano cadere per le vibrazioni. Il sangue coagula. Il respiro è andato a rintanarsi nelle viscere della terra.
Quando fa giorno, ai miei piedi che non si sono potuti muovere, c’è il Romanin, più grande di come me lo ricordavo. Alzo lo sguardo e dall’altra parte della valle, a mezza montagna, un nugolo di corvi vola in cerchio sopra una costruzione che il giorno prima non c’era. Un monastero.
– Dio non esiste – dice il Brusu, apparso all’improvviso e appoggiato al macigno come se ne fosse il proprietario.
– Di certo non esiste per noi, meglio così.
gene
