Non mi era mai successo di volere con ardore la fine di un torneo di calcio, ma per questa Nations League sì, ho tirato il fiato per la sua dipartita. Non è tanto per la Svizzera che non ha vinto nemmeno una delle sei partite, ma per la svogliatezza che ha pervaso tutta la competizione. Un intralcio, una noia, un niente. Ma almeno, contro la Spagna si sono visti volti nuovi, e parlo della Nazionale di Yakin. Bene il portiere Mvogo, che ha dato sicurezza e pulizia con il suo gioco con i piedi – esercizio che Kobel espleta goffamente e sappiamo quanto conti in questo calcio che tra un po’ si giocherà come l’hockey, anche dietro le porte -, e ha anche effettuato ottimi interventi con le mani e parato un rigore; disciplinato Muheim contro una caterva di talenti spagnoli che sulle ali fracassano tutto; bravo Sohm in raccordo tra centrocampo e attacco; geniale Monteiro con il suo gran gol, fisico e tecnica, anche se nessuno dovrebbe mai più chiedergli di giocare nella nostra area – il Mister Peregrino Fernandez disse all’attaccante Soriano, che aveva appena salvato un gol sulla linea della sua porta: “Cosa ci faceva lì, lei, a perdere tempo? La sua porta è l’altra!” -; Cömert che ha rispolverato entrate in scivolata con il tempismo di un difensore degli anni Settanta. Meno bene Kutesa, incapace di trovare spazi per i suoi spunti in dribbling. Insomma, c’è del buono, e teniamo conto anche di Amenda che aveva giocato bene con la Serbia, ingarbugliando Vlahovic. Rieder già c’è e ha la personalità giusta. Okafor è in procinto di svegliarsi. Attendiamo Jashari, e speriamo che Xhaka giochi fino a cent’anni per guidare questi ragazzi che hanno allargato le possibilità. Ora però Yakin dovrà per forza trovare una sintesi in tutto questo e puntare su una ventina di giocatori sicuri, infondere loro fiducia e affrontare con la fame dei proletari la campagna di qualificazione ai Mondiali 2026. Questa sì che conta, non come la Nations degli ingombranti che, ne siamo certi, non vorrebbe più nessuno, oltre a me che sono morto di tedio.
Certo certo certo. Trentadue anni passati senza battere un colpo, senza un commovente pullover fuori categoria, senza quella postura da ostacolo. Non lui, noi! Che cazzo è successo, che al massimo dello sdegno siamo andati in montagna? Sì, anche lui è andato in montagna, al suo paese, ma dopo averne fatte di giuste e ribelli e a ottant’anni, non a sedici o a trentadue o a sessantaquattro. Ci siamo rincantucciati in un angolino, a contare le miserie con la brama dei pidocchi, lamentando del poco, immaginando di più. A contare, capito? A contare! Cazzo! Ma non a contare come lampade accese nel buio, come aironi in volo, no, a contare il materiale, a misurare staccionate, a perimetrare, a occludere, a sorvegliare la roba, a difendere il lavoro di merda, a bramare i weekend con le mani in mano e che nessuno s’azzardi a chiamare se no spacco tutto. Ma cosa vuoi spaccare… Pup di fochi! Se non i tuoi maroni già fracassati. Guardatelo invece il Francesco, ritto sul cassero a chiedere se lo senti il rumore di favole spente, ma intanto e lì ed è chiaro che da lì non si passa. Non si passava. Adesso è tutto un transito nell’ora di punta di torleri, imbonitori, bugiardi, fomentatori e tu, tu, tu, io, io, noi, noi a non tentare nemmeno l’autostop. Non dico copertoni in fiamme sulla strada, ma almeno l’autostop per ordinare al borsone di turno che ti carica su di spegnere la sua musica di merda e sentirlo dire che è solo la tua opinione, con quel sorriso paterno e tu che gli dici che è un fatto, invece, e poi scendi. Non si capisce nulla di quello che succede, e allora che si fa? Andiamo in piazza sì. Ma a pattinare, cioè, a vedere pattinare gli altri, che nemmeno lo slancio blando di rischiare per dieci minuti di divertimento attaccato alla balaustra per frenare, sia mai che l’assicurazione non risponda e poi addio vacanzina. Trentadue anni così! Cazzo! A commentare senza scendere in pista contromano a spaccare tutto. Magari il maglione a coste non c’è, ma almeno le salopette che se anche ti spatasciano coi manganelli te ti senti bene, comodo. Non comodo come sul divano, comodo nella postura da rivolta, anche morto. Ma no, scusa, non dire cagate, ho il mercatino di Natale.
Ferroso che resti di guardia alla Fortezza del fu Prosecco in giornaliera cosa pensi delle antiche nevi? Nostalgiche parole sulle marche? Sciabordio carvato in esaltante giro? Oppure i tanti emolumenti a pioggia per il diporto di famiglie e imprenditori? Non resti che tu al pascolo vago un rudere tra i prati che mai più andranno in bianco col bianchino Il girare la tua ruota era un turbine I giri del progresso un po’ per tutti poi per meno, poi per niente Resti lì ingrippato e altri Tartari non vedi e niente mani a toglierti i bulloni Un cartellino per i passanti in rampico: Opera d’Arte E basta
Questo è un estratto del libro La partita, che scrissi nel 2018. Un’opera di fantasia che ha predetto il futuro. In questa revisione ho messo i nomi veri dei protagonisti, ora che la realtà si è completata, nell’avidità miserabile
(…) Lo vedo ancora seduto là a sinistra della porta, Delfino, come un Aureliano Buendìa in attesa di un qualche tipo di esecuzione, non certo della morte. Di nome, per essere il Delfino dei suoi fratelli, ma non ne sono certo; di fatto, Delfino della sua sposa Georgette, che certo lo amava ma esprimendosi con comandi ed esortazioni. Credo di non ricordare un solo abbraccio in pubblico, nemmeno una stretta delle mani. Neanche un: Caro, come invito alla dolcezza. Eppure, si amavano, magari meglio di quello che siamo stati capaci di fare noi di nascosto con rose comprate e poesie sgangherate. Delfino guardava Georgette con gli occhi limpidi della mitezza mescolata alla fatica e non ha mai trasgredito a un ordine o a un ammonimento della sua amata. Al massimo dell’insofferenza prendeva il carretto di legno a quattro ruote e scendeva alla stalla, mentre Georgette volgeva altrove il suo imperio. Ebbero quattro figli e mentre scrivo è morto anche l’ultimo, Giovanni, lo Zietto per tutti noi parenti, esiliato a Ginevra per scelta sua, nel tentativo di scappare dalle tante oppressioni che hanno amareggiato il suo essere diverso in un mondo contadino e serrato. Una figlia è stata mia madre Olimpia, anche qua vai a sapere il perché di questo nome ellenico in mezzo a fumo e letame. A sedici anni si ruppe la testa, a cinquantasette si ammalò di cancro e l’anno dopo morì, sussurrando Mamma e lasciandoci allo sbaraglio. Gli altri due figli, Maria e Piero, passarono gli ultimi quindici anni della loro vita senza parlarsi e con la ferma intenzione di non accettare le reciproche presenze nel caso morissero. Sono morti, ancora separati, vecchi e chissà se afflitti. Lo Zietto non ha procreato, ma gli altri tre hanno prodotto una sequela di figli e conseguenti nipoti e pronipoti, tutti mediamente impegnati a stare per conto loro. Con Delfino e Georgette in vita tutto si trattenne, poi si corrose per salsedine d’egoismo; e per incuria d’affetto, crollò. Io che sono uno dei nipoti, vivo ormai nella piena assenza dei miei parenti e loro non mi cercano e non mi chiamano. Una rimozione collettiva, di anni e volti, parole e pensieri. Lo Zietto ha smesso di comunicare con me nell’ultimo anno del Novecento; ho lasciato che Maria decadesse all’ospizio senza mai andare a trovarla; Piero l’ho salutato da defunto in occasione del suo anonimo funerale che volle lontano; Olimpia stava al cimitero e non vi entro. Tutto quanto era franato tempo prima per questioni di eredità, una volta morti Delfino e Georgette. Alla roba da spartire è seguita la roba da inghiottire, una scoria amara come la linfa dei salici. E non c’è stato nessun modo di rifare il compito affettivo. È rimasta solo una complicità, di che tipo non saprei dire, tra la progenie di Maria e lo Zietto superstite. A vederla così, è una stirpe con la tragedia nel sangue, e chissà cosa sta aspettando me. Però, ci sono state stagioni formidabili, di prati sfalciati nel fresco del mattino e rastrellati nel bollore del pomeriggio; e caffè da bere a tutte le ore; e gente impegnata e operosa che alla fine della giornata parlava e cantava nel giardino della casa familiare o nella cascina in montagna. Georgette mi ha abbracciato milioni di volte, per pareggiare gli abbracci che ha negato a tutti gli altri e che per il suo essere orfana sono stati negati a lei. Delfino ha spezzato il suo pane e condiviso il suo vino con me bambino, sui maggenghi e nei campi. (…) Poche righe per spiegare, come promesso, perché lo Zietto Giovanni smise di parlarmi. Amoroso e aperto, ha condiviso con i suoi giovani nipoti la sua progressiva veduta del mondo. Musica, libri, idee. Marxista convinto, partecipò a cortei, manifestazioni, progetti. Ma nel privato, decenni di psicoterapia, per capire come fare a liberarsi dai suoi demoni. Ma a noi, non importava, non ci facevamo nemmeno caso e soprattutto non lo sapevamo. Con lui, scambi epistolari, accoglienze quando andavamo nella grande città, vicinanza nelle turbe dell’adolescenza. Ma anche pranzi di Natale dove Olimpia lo considerava come un povero da accudire (e così faceva Maria, Piero no). Pranzi rituali e sbiaditi, fino a quando non tiravamo qua il giradischi o Calvino. Mi piaceva lo Zietto, dolce e incapace di guidare l’auto, incoronato come un re, suo malgrado, quando tornava, due o tre volte all’anno. Una volta morti Delfino e Georgette, aveva ereditato la casa familiare e l’aveva affittata. Per aiutarlo, ne rifeci i pavimenti nel tempo libero – lui era incapace di piantare un chiodo. Mi dilungai, destreggiandomi tra gli impegni al giornale, il mio lavoro di quei tempi. Un giorno mi chiamò in redazione dicendo che era stufo di aspettare, che a ogni giorno sfitto perdeva soldi. Finii il lavoro, non mi chiamò, non si fece vedere, non disse. Nemmeno nel decennale e nel ventennale della morte di Olimpia si presentò, lui che deambulava per cimiteri nel giorno dei morti con la faccia di circostanza. Lo rividi al funerale di Maria e mi salutò come se non fossero passati quindici anni di mutismo. Vaffanculo, pensai. Sapevo che fino alla morte di uno di noi due non ci saremmo più scambiati parole. Un giorno lo chiamò mia figlia, forse perché lei doveva recuperare pezzi di un passato che non conosce. Aveva fatto bene. Quando tornava da Ginevra, non andava a casa dei nonni perché non è più sua, l’aveva data a un bisnipote e per questo aveva dovuto incassare il ripudio eterno di Piero. Scusate le miserie. Georgette li avrebbe trafitti, Delfino compatiti e io me ne frego, non so gli altri. Già si può capire, anche senza leggere sette volte i Cent’anni di Marquez, che la nostra solitudine non ha eguali. Forse, ogni saga familiare insacca una buona dose di meschinità ma, come per le famiglie infelici, ognuna è meschina a modo suo. Delfino e Georgette, nella loro purezza così distinguibile, procrearono splendidi grigiori, dei quali non vorrei più parlare, ma credo che da qui alla fine ricapiterà. Negli armadi abbiamo ossa che ballonzolano tra le grucce di vestiti nuovi e smessi. (…)
Stavo curando le uova col pane e nel mentre andava Bob Dylan. E mi sono detto che, okay, forse potrei fare qualcosa di più. No, non metterci formaggio, ma seguire un pensiero. Intanto che il burro abbiondisce quel che resta della mollica, lui, cioè Dylan, mi sentenzia che i tempi sono cambiati. E perplesso mi dico che così non va, che troppe mezze tacche inzaccherano la mia vita, i pareggi di bilancio, i premi delle casse, gli abbassamenti delle aliquote. Porca troia! Pareggi che sono la resa prona alla sconfitta, premi che sono veleni, abbassamenti a novanta. Ha ragione Dylan, porca puttana, ci fottono. Solo che a lui mica lo fottono, sta in barricata a lanciare molotov incendiate a parole, anche se ha novant’anni. Io che faccio? L’ovetto col pane, e allora ci aggiungo formaggio grattato come se fosse antani. Cazzo! Che poi, va bene, l’uovo è della gallina della sciora che sta su lì in cima, il pane è del Poncini, e il formaggio che ho messo in un accesso di sovversione è di Vacarisc. Sono a posto? No! Il sale è dell’Himalaya, preso alla Migros e crederci è un gioco da ragazzi, tanto sono così scemo da non capire che la confezione è un macinino industriale di merda, usa e getta, per non dire del sale. Io non so, ma come ho fatto a ridurmi così? Alla fine ho mangiato e bon.
Non da te sono calpestata, ma dai modi di dire e dall’ingratitudine delle metafore. Regno delle ombre, neanche l’ombra, un’ombra di qualcosa. Poi anche i bisogni: fammi ombra, vado all’ombra. Mi fanno oscura, a volte anche tetra, mi vestono minacciosa e sfuggente. Ma dove vuoi che fugga? In quale modo posso minacciarti? Sono sempre con te, ti ho accompagnato agli appuntamenti peggiori e a quelli che valgono una vita. Se mi vedi c’è il sole, o una bella luce artificiale, o una fiamma che vibra. Ti seguo, ti precedo, sono al tuo fianco, con l’umiltà di chi sta più in basso, ma infaticabile. Scende la notte e non mi vedi più, solo istanti fugaci illuminati dai lampioni o dalla luna che si fa piena, ma ci sono, tesoro. Ripeto ogni tuo gesto con una dedizione che non troverai mai nemmeno dagli amici, da figlie e madri, dall’amore per sempre, dall’odio o dalla battaglia. Non ti tradisco, neanche se volessi, e non voglio. Io ti accolgo, nella tua gioventù e fino alla vecchiezza, dalla corsa sulla battigia, all’immobilità del dolore. La pioggia non mi cancella, toglie solo le mie fatiche e poi torno limpida ad accarezzare il tuo profilo, nudo o con i tuoi tanti oggetti con cui ti agghindi o ti appesantisci. Porto pesi immensi, lo sai, di cemento e lacrime, ma mi stacco con te quando ti libri in volo o ti tuffi in giorni d’azzurro. Ti sembro lontana nel cielo inquieto delle nuvole, ma non è così, non mi vedi ma ti vesto di tutto ciò che sei. Certo, non posso immaginare cosa ne sarà di te, ma il presente è enciclopedico, so fare tutto senza sbagliare di un millimetro, non mi vedrai mai anticipare un tuo desiderio o attardarmi in una nostalgia. Sono il tuo cuore e non ti tradisco, mi difendi e ti difendo e tutto quello che desidero è un orizzonte verso il quale camminare con te, davanti a te, o dietro, o di fianco, ma sempre dalla tua parte. Io ti amo.