Poi morì anche Luigi Tenco, e in cucina non si sapeva più se spegnere la radio o buttarla di
sotto. Nel dubbio, Olimpia ingoiò le lacrime direttamente con gli occhi e preparò un risotto, per cinque. Infilzai la luganighetta, inghiottendo tutto con la gioia di chi mangia segatura bagnata. Comunque, un padre e un marito in prigione sarebbe stato peggio di Tenco nello stato visto a Un’ora per voi, anche se Olimpia, lì per lì, non avrebbe saputo scegliere tra le due disgrazie.
Nel pomeriggio, prese la bicicletta e con andatura pericolante attraversò la campagna, il ponte e il passaggio a livello. Senza cadere, giunse al bar, appoggiò la bici a un ombrellone chiuso, entrò, mise dieci centesimi nel juke-box, schiacciò la A e il 12, si accese una marylong e stette in piedi ad ascoltare.
Frammentate negli anni, questa e altre cose su Olimpia non mi permisero mai di avere un’idea completa di chi fosse mia madre, di cosa provasse lei nei confronti della vita sua, di quanto male agli occhi le facesse quella malinconia in bilico. Mi accontentavo di viverle accanto, di vederla sgominare il mio terrore al pensiero di una sua assenza definitiva.
Ero disgraziato, pensavo, sempre in mezzo a qualcosa, sempre a metà di un fatto o di un’emozione: altezza, età, attenzioni e parole. Il papà era di quella severità chiara di chi porta a casa il pane, imperscrutabile come le sue alchemiche riparazioni di mobili e finestre. Un privilegio tutto per me era l’accompagnare Olimpia, la mia mamma, in bicicletta, appena ne ebbi una, nelle sue traversate della valle in equilibrio precario, verso Claro, al bar dello zio, quello del juke-box con dentro la canzone di Tenco.
Ciao amore.
gene
Postilla
Comincia Sanremo, che per me è fermo a quel giorno lì, il 27 gennaio 1967.

a mattina del sabato, quindi la spesa per la ricreazione ammontava a un franco e venti, quattro e ottanta il mese. Un calcolo che mi riusciva, uno dei pochi. Per il resto le X e le Y rimanevano tali, sempre e per sempre. Incognite insolubili nella corrente dell’algebra, che io non capivo da dove venisse e dove andasse, che osservavo come chi sa di annegare se si butta in acqua e quindi sta a riva. La mamma mi aveva già allungato le maniche del reporter con la lana verde dei calzini. Non so dire se fossi cresciuto io o si fosse ritirato il cappotto a furia di usarlo, sporcarlo, lavarlo. Il verde da foresta pluviale si era fatto di muschio avvizzito. E avvizzivo anch’io in quella scuola precisa e inutile, secondo me. Un giorno di forte insofferenza reciproca, il maestro di matematica mi dichiarò: – Genetelli! Fai quello che vuoi, ma non rompermi l’anima!
guerre, la città si sviluppò oltre le mura. Dentro, pareti sbrecciate, scale pericolanti e porte divelte. Stesi il sacco a pelo e dormii il sonno dei chilometri. Il mattino, il quartiere mi parve assai bello, piuttosto popolare. La gente non faceva caso a me che uscivo arruffatissimo da quel portone immaginario (anche quello, sparito). Girai per la città, che nel suo nucleo ostentava una ricchezza volgare. Tornai al quartiere e dormii nella casa ancora una volta. E così feci per giorni e mesi. Sono anni che sto lì, la casa è aperta a chi passa e non ha un tetto o non ha voglia di averlo. Con alcuni amici che del rudere ne hanno fatto un ritrovo, abbiamo messo su una libreria, sistemato un salone per far musica e guardare film. Arriva gente anche da fuori città, si ferma un po’, lascia un segno di sé e riparte.
chiamava mio padre, nato nel ’20 del secolo scorso. Chissà se era per tener fede al suo nome, che non aveva scelto lui, ma era di una fermezza inesorabile, nel lavoro, in politica, nel tentativo di educarmi e perfino nel divertirsi. È morto nel 2005, appena prima che io imboccassi strade sterrate. Per fortuna, povero padre. Mi chiedo cosa ne sarebbe stato della sua franchezza nel sapermi errante, lui che considerava la giornata come un dovere. Sono contento per non avergli dato quest’altro dispiacere, oltre ai tanti incassati. Me lo ricordo addolcito dalla malattia e mai avrei pensato che l’ultima volta che lo vidi da vivo, all’ospedale di Acquarossa, sarebbe davvero stata l’ultima. Ne ho malinconia ancora adesso. La sua franchezza mi rincorre ogni volta che sgarro, oppure la ritrovo negli occhi scuri della donna che amo e la cosa non mi tranquillizza. Negli occhi chiari di mia figlia luccica invece il mare di mia madre, ma questa è un’altra storia e la tengo di riserva.
classe. Tra i ragazzi e le ragazze, una siriana, che se non l’avesse detto avrei pensato fosse di Brione o Giornico. In pausa parliamo un po’, le chiedo quando è arrivata qui. Tre anni, dice. È riservata, forse timida, o forse è solamente ben educata. Alla parola guerra, sgrana gli occhi e poi alza le spalle. Sì, qui sto bene, ho fiducia. Siamo rientrati in aula e sono stato attento a lei più che agli altri allievi. Davanti a sé il classificatore, i fogli, il libro e la penna, il capo sempre rivolto a chi prende la parola. Ora gli occhi li sgrana per curiosità, per sapere, non per ricordare orrori.