C’è qualcosa che trasforma l’esibizione in arte, qualcosa che è una compassione tra chi fa
e chi ascolta o guarda. O anche tra due che fanno. Prendiamo la musica che con varietà d’espressioni e gusti ravviva le vite di tutti, per istanti o per sempre. Possiamo ascoltare Springsteen o Mengoni, elettronica o swing, possiamo commuoverci di felicità e piacere, ma c’è ancora un confine sublime da attraversare, che è quello della compassione.
In rari momenti, ma ripetibili, la vita entra dentro, si avverte l’immortalità e si è scossi da quella cosa spaventosa e inarrestabile che si chiama amore. È il momento in cui senti la figlia cantare e suonare, e ti tremano le mani peggio che se fossi tu a cantare; e poi canti tu e lei ti guarda come se fosse la madre e tu il figlio, come diceva Enzo Jannacci.
Questa figlia che si chiama Georgette (come la bisnonna di Claro), con fragilità che ai tuoi occhi sono pregi assoluti, questa figlia è l’Arte. Non perché produca bellezza solo nella forma, ma più per la compassione che ti rovescia addosso e te ne nutri come fosse l’ultima e più sontuosa delle cene possibili.
Seduti su due sassi di un prato di montagna, tu e Georgette cantate e suonate senza bisogno di pubblico, perché siete voi il pubblico e l’artista di voi stessi. La musica trapassa le membra, vivifica l’essenza del sangue trasmesso e per il tempo che la musica è sorretta non ci sono né pene né malattie.
Sembrerebbe tutto privato, questo affare di cuore, e invece è collettivo, poiché questa compassione resta nel cuore come un utensile nel cassetto: quando servirà per aggiustare, la si prenderà e la si accenderà.
Basterebbe, e basterà, per cambiare il mondo e salvarlo.
Georgette è l’Arte.
gene
Postilla
Finalmente il mio amore è arrivato
I miei giorni di solitudine sono finiti
E la vita è come una canzone
Etta James

è fuori luogo, tutto è fuori luogo.
da quella incerta di una performer che vagava nei begli arrangiamenti argentini dalla fisarmonica del Caldelari senza ben sapere come porsi. Poi, la magia ingabbiata non ce l’ha fatta più e sulle note della Verzaschina il popolo si è alzato in coro e le voci hanno svegliato lo spirito di Vittorio Castelnuovo, impareggiabile cantastorie della Riviera, partito per l’ultimo viaggio qualche anno fa.
impazziscono di tanto.
ploc ploc della pioggia sulla tesa, con le gocce a rivoli e una dopo l’altra cadevano a quattro dita dal viso. Lo tenevo a volte anche per ripararmi dal sole, e così facevano altri uomini e altre donne, senza che nessuno le obbligasse a coprire lo splendore dei capelli, ma così, per diletto. Lo toglievo nella discesa verso la piazza, quando la pedalata si faceva intensa e il gusto dell’aria accarezzava il capo come vino al palato. L’ho lanciato in aria per un gol o un matrimonio, l’ho tenuto tra le mani a funerali e dentro uffici. Non ho mai pregato, ma a tavola lo levavo, appoggiandolo da qualche parte, però in modo da poterlo sempre vedere, anche di sbieco.