Sotto quella Cosa apparsa al mattino, sono certo che già nasce Qualcosa. Cominciare a dire senza riuscire a dare un nome proprio sembra avvilente. Invece no, la Cosa che per tutta la notte ha scosso, non ha nome perché sarebbe maligno; del Qualcosa che nasce non so nulla. Potrebbero arrivare entrambe, la Cosa immensa e sfatta e il Qualcosa esiguo e solitario, da un’altra parte, da un altro pianeta. La Cosa lercia e notturna che ha distrutto e sotterrato sembra invincibile, ma ormai è inerte e la buona volontà delle mani la sposterà a poco a poco. Il Qualcosa minuto sta invece già lavorando e a lasciarlo fare crivellerà il mostro sbriciolandolo. Anche se noi, io e te, tra cent’anni non ci saremo più, per sfinimento o violenza, il Qualcosa andrà avanti avvolgendo la Cosa immonda fino a ricacciarla in quell’oblio dove deve stare, dove stava prima. Chiedo dunque, che una parte del Qualcosa possa ornare il riposo e confido che mani sempre giovani non le facciano mancare gocce d’acqua, piano, una alla volta, senza danno o fragore, senza spavento.
Il calcio della montagna ha sradicato boschi dal fondo della notte e ha trascinato anche me Dalla Bavona triturata sono rotolata fino al lago, nessuna mano de dios a infilarmi nella porta, quella del prato, divelta come gli usci delle case Sono stata regalata con i buoni del negozio e subito mi hanno rincorsa nel verde della valle superato l’inverno e in questo tempo sgangherato dove l’acqua del cielo ha martirizzato la terra delle cose Non sono annegata perché non di cuoio sono fatta ma di plastica colorata, tanto eterna e povera Forse navigherò sul Ticino che a sud volge nel Po e da lì al mare, raccolta chissà, a Rimini d’estate Qualche gioco di bambini ancora mi sorriderà, ma lassù la terra castigata aspetta prona di rinascere, tra scartoffie severe di burocrati indecisi o peggio, disorientate pale e zappe, sanguinanti mani e cuori E lo spavento della notte non dà tregua Non sono in salvo, no, non lo siamo
gene
E per tutti il dolore degli altri è un dolore a metà (Disamistade – Fabrizio de André)
La nostra Svizzera, la nostra terra, la si ama non per nazionalismo o praticità, ma per il concetto di mondo che identifica, aggiungere un pezzettino alla volta per riuscire a stare insieme, per tenersi insieme, mettendo dentro lingue su lingue, dialetti su dialetti, culture su culture, capacità su capacità. La squadra di calcio nazionale è come se fosse uscita da questo alambicco in forma di sintesi assoluta e in queste settimane di passione abbia voluto farsi assaggiare da tutti, una delicatezza su labbra già note o sconosciute. Nel calcio ci sono parole da usare con molta parsimonia, ma se proprio si voglia definire Elvetìa (i greci insegnano ancora, se si presta orecchio), ecco, la parola è “Gentile”. La Svizzera è gentile, un cromosoma del nostro patrimonio genetico, che racchiude valori giganteschi e anch’essi da aggiungere pezzo per pezzo, come i Cantoni: ascolto, operosità, inventiva, resistenza, generosità, talento, condivisione. La gentilezza è stata portata in campo dalla squadra e dai tifosi, mai una protesta, mai un fallaccio, mai un’irrisione, mai un trucco, mai un tuffo, mai uno sgraffigno. È facile dimenticare chi siamo come popolo, i tempi non aiutano, ma nel concetto collettivo della Nazionale di calcio abbiamo (ri)trovato il nostro modo di stare al mondo, gentile, che poi è un modo per non arrendersi mai, per provare e riprovare, come fanno i contadini sui dirupi, o gli impiegati nelle città, o gli artigiani nella precisione del fare le cose per bene. O i giocatori in campo. La Svizzera esce da imbattuta, saluta e lascia una Costituzione per ciò che deve essere il calcio, e quindi per ciò che vogliamo per la vita: impegno e lealtà. Di più, davvero, non si può.
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Articolo pubblicato su Eco dello Sport il 7 di luglio del 2024
L’acqua è furba, dice il Bau sollevando una pioda del tetto. Ci infila una scaglia e spiega che così si devia il corso misterioso delle sue gocce. L’acqua la incanali come la vita, la argini, la sotterri, la devii, la opprimi; poi, quello che nei giorni di sole è un rivolo, nella tempesta reagisce svellendo tutto ciò che si oppone. E più è opposizione, più è travolgimento. La furbizia dell’acqua si dissimula in mille maschere e cela catastrofe. Nella lista dei suoi travestimenti c’è la Nera, che venne di notte perché chiara e visibile non voleva essere. Si fece sentire nelle orecchie, vibrò nelle ossa, scosse le nari con afrori di silicio e linfa, occluse sensi intorpiditi dal sonno. Vent’anni prima, con l’erezione della diga, il corso del Fródo fu ridotto a rigagnolo prostatico con pesci decimati, vegliato da pietre ammuffite verdi e rosse o calcinate nell’aridità protratta. Nuovi posti di lavoro alla centrale idroelettrica portarono voti freschi ai sindaci, che plebiscitati si pavoneggiarono a tutte le tavole imbandite come se lo sbarramento l’avessero progettato e costruito loro con ingegno, abilità e dominio. Non avevano fatto niente, invece, se non intascare prebende e appaltare a parentela. Prono, il popolo non obiettò, immaginando chissà quali briciole di ricchezza da riporre in dispensa. In realtà, la diga portò la dote venefica di prati inariditi, pascoli strangolati, bosco incolto e casette con giardino affacciato sul letto stazzonato del Fródo. Camosci e cervi se ne tennero alla larga da subito, scansando d’istinto la pastura grama. Solo il Rinaldo andò avanti a sfalciare per salvare dalla scomparsa il poco fieno e agitando sempre il medesimo dubbio: “O prim o dopo u vegn da colp”, riferendosi all’oceano artificiale trattenuto lassù per far luce. Nemmeno nei giorni più tumultuosi, quando il cielo si oscura di pensieri, ingrossa la voce e si strizza i panni, nemmeno in quei giorni il Fródo, incatenato e ammutolito, si scuoteva. Dalle finestre delle casette si guardava l’agitazione della natura, come si guardano le stragi al telegiornale. Uno spettacolo. Anche dalle nostre vetrate, anch’io. Poi andavamo a letto. Pure la notte della Nera. Nel silenzio della casa, origliato dalla porta della mia stanza, aspettai e poi uscii per cento passi di salita boscosa, nel buio fitto dentro il quale il temporale sfrondava indisturbato. Mi arrampicai sul castagno fino alla capanna d’assi tra i rami, con la mantellina militare a coprirmi come la tenda di un circo mimetico. Nessun motivo chiaro mi spinse lì, i miei non avevano litigato, avevo fatto il bravo, nessun castigo. Mi andava di sentire davvero la furia dell’acqua addosso e non solo vederla stemperata oltre i vetri. O altra ragione che non sapevo. Di colpo la notte cadde a pezzi con boato inaudito, zittendo il tuono e spegnendo il fulmine, frantumando tutti i miei pensieri, anche quelli che non si erano affacciati. Mi aggrappai al pollone del castagno, pilone maestro contro il terrore. L’artiglio del vento mi spezzava i polsi da bambino, con strappi diseguali. Non sentivo più i piedi, il fragore era completo e avvolgente, un fischio mi trafisse le orecchie. Nel cedere alle scariche di onde oscillanti, in me si scolpì un solo convincimento: Muoio. Non morii. Non pioveva più e non sapevo se avessi dormito o perso sensi. Ma ero certamente vivo, nella luce brunita del giorno, mattino o pomeriggio che fosse. Mossi il capo. Era cambiato tutto lo scenario, o forse ero andato io in un altro mondo. Dalla mia posizione riversa, vidi un fiume scuro e quasi fermo che lambiva appena il piede del mio castagno, come se m’invitasse a sé; più in là, al centro, impazzava, schiumava tronchi e digeriva foglie. In fondo a questo furore, nella nebbia sfilacciata, s’intuiva il fianco intatto delle montagne. Nient’altro, come se l’uomo e le sue opere non fossero mai stati lì. – Nèn! Nèn! – Il Rinaldo mi chiamava. Mi mossi, o almeno pensai di farlo, ma non successe nulla, nemmeno a voce. Salì e mi calò sull’erba rada legato a una fune, come si cala una bara nella fossa. Avevo ancora la mantellina. Dopo ore cominciai a sentire di nuovo i piedi e poi in un minuto tutto il corpo arse. Il Rinaldo, seduto, osservò il mio ritorno e appena fui in piedi enunciò: – L’é gnit tut, a gh’é più noto! – La Nera aveva portato via tutto e spostato indietro il tempo di diecimila anni, a quando l’uomo era orfano e nudo, senza casette, senza luce, senza legge. – A gam più noto… – bisbigliai, prendendo atto. Nell’aria fradicia, non un trillo, uno scalpiccìo, un vagito. – ‘na camera d’aria da camion, da majèe e ‘na rodo da biciclet – precisò il Rinaldo, saldo nella barba riccia, indicando il tutto come se fosse un galeone con stiva fornita e non un’imbarcazione con destino da relitto. Una spinta, un’esitazione e un salto nel natante, la camera d’aria tesa a far da canotto, la ruota di bicicletta incastrata nel buco della ciambella a far da fondo. Da un altro fondo, un archetipo mi risalì ai sensi e compresi che non si muore se non lo si desidera. E io desideravo vivere, libero. Il natante roteò un paio di volte per scegliere la corrente secondo la sua idea. Poi si decise e il film della natura trionfante si srotolò nel nostro sbalordimento. Era come stare sui cavallini delle giostre, però senza mamme da salutare a ogni giro. Mi parevano lacrime, ma gli spruzzi se le portarono via. Il Fródo faceva impressione, non sembrava nemmeno lui, piuttosto un grande elefante da guidare con prudenza. La camera d’aria seguiva la corrente, veloce e piana come se la Nera, dopo lo stupro, si adagiasse sulla terra violentata per consolarla della perdita di prati e fiori. – Aoo ch’a vamm? – chiesi, con voce nuova, da pubertà abbandonata. – In sgiù – rispose il Rinaldo. Oltrepassammo arcate di ponti sbrecciati, ci urtarono tronchi erranti, ostacolati da scogli così accaniti da sfracellare chiglie ben più preparate della nostra, ma la nostra sembrava trattenere aria più indissolubile di quella che mi si svuotava dal petto. Dopo molte ore, il Fródo rallentò nella valle che si allargava. E vedemmo allora i morti fluttuanti e i vivi immoti, campanili affranti con macerie ai piedi, automobili piantate come ogive inesplose. Non ci fermammo. Mangiammo pane umido e salame a bordo, bevendo dalla borraccia zincata, tutta roba insaccata dal Rinaldo ben prima che la Nera schiantasse.
Nera di falde amare, che passano le bare.
Passano anche le camere d’aria con ruota, pensai. Mi sorpresi a sorridere. Tutto il mio mondo era inabissato, le persone, la mia famiglia, tegole e sedie, materassi e bambole. Eppure mi ammaliava questo nuovo orizzonte in agitazione, dove non sarei più stato un maledetto bambino da comandare o castigare. Sorrise anche il Rinaldo. Al crepuscolo attraccammo a colpi di bastone, dove appena ieri il Fródo era ancora incanalato; sgonfiammo la camera d’aria e con tutto il mondo in spalla dondolammo passi sulla terraferma, nel silenzio lacerato da singulti, avanzando e avanzando tra alberi severi come sentinelle del deserto. Nessuno ci rivolse la parola, ognuno prigioniero del proprio sconcerto. Capovolto il mondo, finalmente tornati animali inoffensivi, inutili e muti. All’alba rigonfiammo la camera d’aria con ruota di bicicletta e riguadagnammo il fluire ancora torbido del Fródo, come correre in braccio all’amore. Il Rinaldo, appena prima del lago, mi toccò una spalla. – A vamm amò, Nèn? – Ci guardammo, fermi nella conoscenza. – Amò! – risposi. Si fece lago, si fece chiaro, si fece ancora fiume, lentissimo, senza monti, poi si fece spiaggia e mare. L’acqua è furba, soprattutto se preparata all’inganno del suo traditore chiamato Uomo, pensai con la stessa lucentezza del cielo liberato. Poi ci salvarono senza chiederci il permesso o quanto fosse dolce il naufragare. In sette anni, sordi al rimpianto e pingui di solerzia, ingoiarono i singhiozzi, ricostruirono la diga e l’oceano finto, rifecero argini, raddrizzarono campanili, rieressero casette, ricostituirono famiglie, osannarono sindaci, prepararono catastrofe. Il Rinaldo, imperterrito, tornò a sfalciare come sempre, senza badare all’inutilità. Io subii nuovi comandi e altri castighi, più duri e desolanti. Ora, sul tetto con il Bau a opporre piode alle gocce, guardo in alto, dove di nuovo è rinchiuso il Fródo. So che il Rinaldo ha tutto pronto. Un altro castagno, figlio e fratello, attende. E io aspetto tutte le notti la Nera, dolce Nera.
Dove si suggerisce di guardare al calcio come lenimento per l’anima
In un momento disperato e che sembra infinito, la nostra amata Europa gioca a calcio, cercando una fratellanza impossibile nella politica, nella religione, nella cultura. Ma anche in questa meravigliosa comunanza di colori e volti si annida l’idiozia. Quella dei casseur che preparano agguati con coltelli e bastoni (sono tifosi solo nell’accezione malata della parola). Quella dei governanti che si gonfiano il petto per un gol. Ma pure quella degli indifferenti, che si presumono migliori perché non si adeguano al popolo del pallone e che lo considerano “Oppio dei popoli” tirando in ballo pensatori defunti, come se l’oppio non fosse milioni di volte meglio delle guerre e dei morti per cause efferate e altrui. Lo so, è un discorso che sembra fuori dallo sport, e invece no. Lo sport insegna che la meglio gioventù può giocare con agonismo, rispetto e lealtà, senza doversi piegare ai colpi di cannone e alla retorica della patria e della famiglia. Lo sport insegna che dopo una sconfitta c’è sempre la possibilità di una rivincita, senza che nessuno ci lasci la pelle in nome di falsi valori come la difesa dei confini tracciati per dividere con odio e ferocia. La sconfitta, nello sport, è un valore tanto quanto la vittoria, è un gioco delle parti onorevole e per il quale andrebbero aboliti termini come “vergogna”, abusati in caso di delusione da tifosi e commentatori. Nessuna vergogna, se qualcuno è stato più bravo di te. Lo sport insegna anche, e finalmente viene da dire, che non è fuori dalla realtà, che gli inviti a un mondo migliore possono esternarli anche i calciatori, e non solo è un diritto privato, ma è un dovere pubblico. Rappresentano le nazioni, è vero, e l’anacronismo degli inni è lì a ricordarlo, ma le squadre di calcio sono poi solo squadre di calcio, con il loro piccolo/enorme esempio di solidarietà e di ricerca del bello tra esse stesse e gli avversari. Il calcio è di tutti, ha detto un amico parafrasando, appunto, Marx. Se i masters of war, tutti i padroni delle guerre grandi e piccole, guardassero le partite e nel paragone si sentissero miserabili, un piccolo sentiero si traccerebbe nei rovi che scarnificano le nostre coscienze. Dunque: forza ragazzi e ragazze, alzatevi e giocate contro ogni sopraffazione. Siamo con voi. Viva la Terra.