
Lassù non c’è niente, non ci andare. È vero, hai ragione, cosa può crescere tra i sassi? Nessuno vi sale, troppa neve e troppo sole. Troppo vento. Lo vedi? Neanche un sentiero. Chi ci è andato ed è tornato, perché qualcuno non è tornato ma forse non ci è andato davvero e ha solo fatto altre strade piane per sparire dalla nostra vista, chi è tornato aveva le caviglie scorticate e gli occhi sbarrati. Dicono, io non conosco nessuno, nessuno che nemmeno ne parli un poco.
Eppure. Eppure sono certo che l’amore e la morte si celino o si mostrino anche lassù, e io voglio capire. Lo so, ho imparato: l’amore e la morte non si vedono, ti entrano dentro e quando te ne accorgi sei già prigioniero. Non ci andare sul Monte. Ma certo invece, che ci salgo.
E dai primi declivi, dove la vite tiene ancora duro, passo a una pineta fresca, che si farà rada quasi senza darne segno, come i capelli sul cranio a una certa età e a un certo dolore. Ma la pelle del Monte non è liscia, è aguzza di pietre chiare. Da lontano sembrano in pace, da vicino mordono. Con un po’ di attenzione e scarpe buone si riescono a schivare. Salgo con ampie curve come quando si affrontano le asperità dell’anima, andare su diritto è troppo, andare dritto al punto è una hybris. Fa caldo, forse siamo a luglio, non so, e la mia mamma mi ricordo che diceva sempre di non stare sotto la stecca. Non credo di essere il primo, penso. Ci sono segni quasi imperscrutabili di orme andate, l’aria raccoglie a folate degli strani sospiri che a starli a sentire con pazienza potrebbero volgere in parole di amanti. Il tuo nome antico è Ventur, me l’ha spiegato la nonna dell’Alvernia che ti vedeva da lontano. Sei indissolubile al vento che ti trapassa e ti sorvola e scaraventa al mare tutto ciò che trova.
E intanto comincia a scottare di brutto, mi pare di avere la faccia di cartapesta.
Ho portato acqua e le anfetamine che ci davano in guerra. Conservo una stilla sensuale nel caso mi ritrovassi affranto. Sono salito da nord, immaginando qualche poco d’ombra, forse da sud sentiero ce n’è, forse non siamo soli, Monte. No, neanche da sud, sarebbe anche peggio e solo i pazzi salirebbero da laggiù.
Non riesco a capire perché tu sia disabitato ed eluso, un reietto malinconico e temibile. Chi t’ha posato e abbandonato in mezzo al vento di questa terra piatta? Vederti da lontano è una repulsione? O è un anatema per tutti, per te e per noi? Cosa vuoi dirmi, tu, così grosso senza opulenza, così sgombro e oscuro? Forse è il timore, Monte, è l’ignoto a tenerci divisi. Potremmo amarci, impavidi. Potremmo morire con una specie di gioia aliena. Ma ignavo ai tuoi piedi non lo scoprirò e tu non saprai di me. Per questo salgo su di te, come su una cavalcatura che va verso una gloria o una sconfitta. Deposti sulla terra con la stupidità del caso, siamo entrambi disadorni e inospitali. E allora, forza.
gene




