A podeve pou vess al Nefcentset, i ma metudu su pa’ ‘m vagon i parent da Franza. A som ruede a Crèe al vot da mars. A perlevi domà francees. Sì, Georgette. Il 1907, che la primavera neanche cominciava e la tua fanciullezza era finita col treno che ti portava a Claro, da una terra ignota all’altra, dall’Alvernia misera alla Riviera appena meno che affamata. E orfana, dopo i primi e interminabili sei anni della tua vita. Elle ne peut pas rester avec nous. Erano in troppi con troppo poco. Prese in mano il suo destino come si fa col fieno e il rastrello, tutelando ogni stelo e che venisse buono per la mangiatoia e la tavola. Quando non funzionava, tornava alle sua labbra il francese imperioso che le era rimasto inchiodato tra il cuore e la pena. Quasi alla fine, dopo una torma di anni domati, ordinò che la portassero al ricovero. A voi mighi pesèe so i eltri. Je ne veux pas imposer un fardeau aux autres! Visto che si faceva finta di non capire. Era l’8 di marzo.
Un mattino me lo sono ritrovato con una benda come Van Gogh, il Pa’. Sul momento non è che realizzi. Sì okay, è chiaro che è morto, è steso su uno di quei letti malefici dell’ospedale, non parla, non respira. Gli hanno messo quella benda come si fa coi morti per tenerli assieme ancora un po’. Poi ho pensato alla sera prima. “Ah, ma l’é propi bel chilé”, mi fa, da seduto su una poltrona, che insomma, proprio bello a me non pareva, ma non è che noi due si abbiano avuto le stesse vedute su qualcosa. Su niente, o quasi. Però era vivo cristo, e il mattino dopo era morto. Ma com’è possibile una cosa del genere? Capita a tutti? Ma davvero? È inaccettabile, dai: prima sei vivo e parli e sei pure contento nella tua semi-infermità, poi no, citoforever. E non è che dormi e ti svegli: dormi e non ti svegli. Ma non come da ragazzi che il sonno si protraeva fino a mezzogiorno e poi comunque ti rimettevi in moto nel pomeriggio e la sera eri di nuovo in cima al mondo. Qua non si sarebbe protratto un bel niente, a meno che il Pa’ credesse nelle celesti praterie di Manito, il che è da escludere. Insomma, sia io che lui siamo rimasti con le parole in bocca, quelle che andavano dette e invece no. Una parte dei silenzi miei è riempito da cose come questa, dei suoi non c’è traccia, anche se ogni tanto me lo immagino che salti su e dica “Pense mighi gnomà al fotbal”. O magari qualcosa che non contenga un non fai non sei non hai: “L’è propi om bel lavoor”, invece. O tipo così. Sono vent’anni che vado avanti senza di lui, ma non passa giorno senza che mi venga in mente un dialogo inventato o un gesto immaginario. Senza reprimende, nemmeno quando le cazzate sono gigantesche. Vorrei togliergli quella benda e dirgli di alzarsi e smetterla di simulare.
Ringrazio ancora Esther Weber e Massimo Angelini di Temposospeso, casa editrice di resistenza, che hanno accolto il mio libro con l’entusiasmo di una nascita. Sono venuti di persona fin qui, nelle discoste Alpi ticinesi, per incontrare me e Doris Femminis – Chiara cantante e altre capraie, che romanzo, che scrittura! Abbiamo parlato delle virgole, delle trame della copertina, della comunità che è la loro casa editrice. Mangiando fondue e divertendoci, loro anche abbagliati dal Meo che conoscevano solo dai testi. Bon, volevo dire anche che sono orgoglioso di me stesso. Erano cinque anni che non pubblicavo un libro, per svariati motivi e non tutti dipendenti da me. Ma quando ho deciso di prendere in mano di persona la cosa, in novembre del 2024, ebbene, in quattro mesi questi scritti sono realtà, ovviamente with a little help di chi ci crede. Dopo la solitudine dello scrivere, la condivisione di chi legge, o leggerà. La foto è della Libreria Locarnese, che ha già le copie in vendita. E quando l’ho vista ho pensato: ecco, grazie e ancora grazie.
Al controllo della remota possibilità di tenere a freno le emozioni per rottami ancora buoni, c’è il Big con la scritta TRUMP sul cappellino. Il Big è il manager delle benne a semicerchio, qua il legno, qui il ferro, lì il vetro, là l’elettronica, ovunque la plastica. Vado giù il mercoledì, il giorno in cui il Circo Ingombranti arriva in paese e la meraviglia per l’impossibile è sempre nuova, come un bimbetto che rinasce una volta al mese per far contenti el pa’ e la mam, che sennò gli tocca aspettare sempre più di un anno per rinnovare l’evento, tenendosi in casa il piccolo torleri. Il Big dice – Cosa vuoi? Che ci metta CASSIS? – Obiettare è impossibile, sarebbe come disboscare un roveto a mani nude, vince lui. E poi mi indica offeso il cassone dell’elettronica, e ci vado con il mio stereo a cassette che mi piange il cuore. Il Big ha un attimo di comprensione. – È dura la vita per noi artisti! – L’ambiente è quello dove i perdigiorno guardano scavi, ma al quadrato. Per un barattolo di vernice rinsecchita o un microonde esploso ci vuole mezzora, per una sedia skottkärra svitata anche di più perché c’è sempre qualcuno che dice di aspettare, che magari, in giardino, in cantina, a monte. Nel frattempo, il Big se n’è andato e al tavolino ce ne sono altri due, sottoposti. Nel cassone del legno porto un attaccapanni irrimediabile e cosa ci scorgo? Una slitta, una Davos, intatta. Me la prendo, ma chiedo ai sottoposti. – Dobbiamo sentire il Big. – Va bene. Torno dopo un’oretta con il set di scarpe consunte e chiedo se, allora, la slitta? – Ah no. Il Big ha detto che gli serve. – Me lo vedo, col cappellino e i cento chili sulla Davos. Ripiego su un cavo uessbee e mi dicono che quello posso prenderlo. Ma verso sera lo riporto, solo per arraffare la slitta col favore del buio, mentre il Big sarà già in lacrime davanti al telegiornale, commosso col cappellino in mano a sentire di deportati e dazi, confondendosi.
Una normale giornata di sole, ecco. Siamo al solito febbraio che u sa né da mì né da tì. E mi dirigo in ciabatte verso la bucalettere, con la consueta ansietta, perché là dentro fanno il nido mostriciattoli burocratici. Magari attesi, ma mai proprio proprio benvenuti. Per non intossicarmi prima del tempo, in quella decina di passi penso al gol segnato nel ‘77, quando con un’improbabile foglia morta avevo fatto buttare il Gnoli per niente. Non mi viene neanche in mente il lavoro che ci vuole per mettere in fila parole frasi pagine, il mio lavoro di ore notturne e diurne, che raccoglie cose sparse in giro nel mondo, me le stipa nella testa e poi mi tocca riordinare cercando una logica. Non mi viene neanche in mente il dubbio, tiranno supremo che governa anche quando è il momento di fare una carbonara, o attraversare in bici un ponticello d’assi con la brina. Anche perché ora sono a piedi, ovvio, i dieci passi sono dieci passi, non dieci pedalate. E per fortuna non sono dieci bracciate a nuoto, annegherei in partenza. Non sono neanche dieci porte alla Odermatt, o dieci capitoli alla Dürrenmatt. Sono solo dieci passi, nove otto sette sei cinque quattro tre due uno. Apro la porticina di metallo ghiacciato. Sperando solo nel giornale e non lettere grigiastre. Avete presente quando non credi anche se vedi? Ecco. Poi ci credo. Afferro. Torno con trent’anni di meno sui dieci passi, entro in ca’, spacco pacco. E mi commuovo. Pouret, bon, ma pouret scioor. Lì, nel sole che entra dalla finestra, loro tre. Avanguardia di un universo in arrivo e simbolo della fatica trascorsa e solitaria, che nel mentre nemmeno sai se potrai tenere o dovrai buttare. Hanno questo titolo perché è sempre meglio mettere le mani avanti, in caso di delusione. Oggi però è una stilla di felicità, anche più della foglia morta al Gnoli.
gene
Grazie a Massimo, Esther, Michela, Giorgia, Gori, Gian
C’è una cena, si mangia senza dire granché, il cibo è buono e tutti sembrano contenti. Poi uno comincia a dire cose che hanno un senso, parla di sé, d’accordo, ma senza paragonarsi alle espressioni del mondo, quelle lontane e vaste. Dice che una pianta del suo giardino gli sembra malata, forse troppa terra alla base del fusto che soffoca la corteccia. È preciso, non generico. Mi piace. Poi si rivolge a me. – Tu hai piante? – No. – Guarda che dovresti, insegnano tante cose, i ritmi, le stagioni, le gemme, le foglie. – Ma anche se non ho una pianta che sia mia, ritmi stagioni gemme foglie ci sono lo stesso. – Ma non è come averne una. – Ho altre occupazioni, non sono bravo con le piante. – Certo, lo so. La scrittura e le immagini che le metti dentro. Che mi piacciono, quasi sempre. Forse dovresti però essere meno oscuro, più contento. – Lo sono. – Non si direbbe dalle parole che scrivi, come quelle che rappresentano amori impossibili o persone che non ce la fanno. A volte sei scoraggiante e chi ti legge finisce per pensare che la vita è un inganno. – La vita è un inganno se non la racconti onestamente. Io racconto la mia, come posso e come voglio, con immagini che vanno qua e là e che mi piacciono. – Ma potresti usare altre parole più facili, non solo rabbia e dissenso. Non aiuta a stare meglio. – Ma io sto meglio se dico e scrivo quello che sento, quello che penso. Se mentissi starei male. – Tu non sei il depositario della verità, non puoi pensare che tutti la vedano come te. – Non lo penso. – Non stai aiutando il mondo a essere migliore, comportandoti così. – Non ne ho intenzione e non credo di averne la possibilità. – Ecco, vedi? Se tutti facessero come te non cambierebbe mai niente e saremmo sempre in disaccordo. – Sei in disaccordo con me? – Sì, quasi sempre. – Fai bene, sei onesto. – Sono onesto sì, io, e vedo di andare d’accordo con tutti, non come te, che i pochi amici che hai si allontanano perché non riescono a sopportare le tue affermazioni. – Cosa posso fare se non affermare? – Prova a riflettere, pensa, mettiti in discussione senza arroganza. – Lo faccio sempre. Ogni volta che scrivo è un confronto tra i miei pensieri e quelli degli altri. Faccio parlare anche animali e oggetti inanimati, qualsiasi cosa. – Ma credi davvero che serva dare voce al calamaio o al coyote? – A tante altre cose, a tante persone, a essere viventi che non hanno una voce, magari solo perché sono obbligati a stare zitti, per la loro natura sì, ma a volte anche perché la loro voce gli viene levata da noi, da me e da te. – Non tirarmi di mezzo. Fai anche il difensore degli oppressi adesso? – Tu non difenderesti un indifeso? – Io difendo solo chi mi vuole bene, sono generoso e altruista. – Anch’io. – Tu no, tu pensi solo a te stesso, esprimi solo i tuoi concetti e lo fai con quell’aria da sapiente al quale non interessa niente degli altri. – So poco, molto poco. Nessuno è obbligato ad ascoltarmi o leggere il poco che scrivo. – Infatti. Io non ti ascolto e non ti leggo. – Fai bene. Poi non mi dice più niente. C’è silenzio. La sua compagna gli passa le dita tra i capelli ma lui è davvero molto sconsolato. Mi dispiace. Gli altri non parlano. Dopo un po’ se ne vanno tutti e io finalmente posso tornare a scrivere mentre penso.