Quando mi tocca dire a mia figlia, al mio amore, a mia sorella, agli amici che non riconosco
più la mia terra, provo dolore. Non dispiacere: dolore. Sento che sto tradendo la granitica e seria fiducia di mio padre, che sconvolgo la malinconia di mia madre. Eppure è così, l’innocenza è persa, come perdere una partita giocata bene e con lealtà per un gol in fuorigioco. Il Ticino di adesso è un posto dal quale fuggire e se non fosse per le persone citate prima me ne sarei già andato. Ma li guardo e li amo, non posso scappare. E allora rimango in questa miseria senza cuore, cresciuta nel disprezzo dei semplici grazie a una classe politica che da vent’anni parla senza dire niente, vaneggia senza un’idea, contagia il popolo imbecille, trama per sedie e poltrone, alimenta fascismi idioti. Dove basta una lettera per restare senza lavoro, dove ti dicono che non hai capito bene, dove ti spiegano che così non si fa.
Come diceva Enzo Jannacci, l’avvenire è un buco nero in fondo al tram. Non sappiamo mangiare di meno, non guardiamo l’altro, non progettiamo più. La scuola cade a pezzi, le piazze si svuotano, la musica cessa. Non di colpo, ma giorno dopo giorno, nel sonno, nel lavoro, nell’isolamento. A questo punto del cahier de doléance qualcuno dirà: guarda gli altri, stanno peggio. Oppure: vattene, invece di sputare nel piatto dove mangi. A questi dico subito: andatevene voi, che sarà ancora bello come quando parla Gaber, o qualcuno come lui.
Figlia mia, amore mio, amici miei, sorella: distoglietemi da questo proposito di esilio, aiutatemi a ritrovare l’anima di questa terra diseredata chiamata Ticino. Mio padre e mia madre sono sottoterra, capisco la loro diserzione. Ma voi aiutatemi, vi prego. Scacciate i malvagi che lasciano in strada vecchi e ragazzi, svelate gli impostori, sciogliete ghiacci, fracassate ipocrisie. Sotto le macerie, ritroveremo noi stessi e la nostra terra gentile. Perché c’è ancora, lo so. Ci siamo ancora. Ci sono.
gene
Postilla
Ci sono emozioni che non ci permettono di agire, ma lavorano dentro e c’illuminano.
Giorgio Gaber




cipiglio, che fa anche rima indissolubile con Virgilio, il suo greve nome, appunto. Libertario senza neanche saperlo, del Vate mantovano non ha niente. Lui ama Tenco fin da bambino, quando girava per i vicoli cantando fuori tempo massimo, per uno della sua età: