In principio, c’era l’andare ad Ambrì per la neve, le gallerie e gli strani discorsi degli adulti
in auto. Seguì l’indipendenza della crescita e del tifo di serata, non ancora vera passione, al massimo una sciarpa commissionata alla nonna e recapitata a campionato quasi finito. Più avanti, giunse la scoperta delle ragazze in curva e in buvette, scremate in breve a una sola, quella che non ci stava con te ma con altri cento sì. Arrivò di conseguenza il rivolgimento ad altri bacini imbriferi, ossia le sagre con balli lenti o i bagni al fiume, situazioni che qualcosa attaccato lasciavano: una morosa, inesperta ma meglio di niente. L’Ambrì, per merito di questa quiescenza sentimentale, tornava in auge; la dimenticabile idea di portare lei nella malagevole Valascia si faceva largo nel deserto di proposte, obliando le fatiche delle seduzioni passate. Dalla paziente spiegazione delle regole del gioco, passando per il patetico tentativo di coinvolgerla nei doveri emozionali che tifare comporta, fino alla camerateria da buvette, la liaison si sfibrava fino a rompersi e tu dovevi ricominciare daccapo andando a operare per feste e carnevali.
Poi ti calmi, entrando nella modernità, convinto alla quinta o sesta cantonata, e ti senti un uomo con una grande donna al fianco, e ti dai ai progetti. Intanto l’Ambrì, spesso senza di te, inanella le solite cose: vittorie stentate o clamorose, sconfitte prevedibili o sconcertanti, acquisti di eroi e patacche. Ci fai caso di striscio, preso dall’esaudimento delle tue e altrui fisse sulla vita a due. Naturalmente, non dura e finalmente ti dici che la sola passione, urca, è l’Ambrì. E allora, su alla Valascia, di martedì e di sabato, cultore di una pista nel frattempo invecchiata malissimo dentro la quale gioca la squadra meno soddisfacente del globo. Ma a te non importa, chiaro, anzi i patimenti sono le medaglie immaginarie appuntate al posto di quelle vere e mai vinte.
Un giorno, la transumanza finisce davvero, per motivi assemblati a casaccio come il lavoro, l’esilio o qualche hobby tipo il cinema o le escursioni. Anche se – pensiamoci – c’è gente della tua età che è ancora lì, in quello stato e in quello stadio (si fa per dire…), con la tessera stagionale esibita come una laurea, rischiando la pelle per il gelo e la morbosità, sull’orlo di catastrofiche salvezze condite di proclami per l’anno dopo. Tu, che ne sei uscito per puro culo, fai il ganasa e ne parli come di qualcosa ormai irrilevante. Infine annunci che se ci vai una volta l’anno è tanto, che ho altro da fare, io.
Poi, seduto al cesso, leggi ogni riga dell’Albertoni sperando che sia o non sia tutto vero; inveisci contro la radio per gol invisibili o annullati e quando al Boscolo salta l’epica ti commuovi ancora.
Tua moglie, se ce l’hai o ce l’hai ancora, ti fa notare pubblicamente che alla nascita dei suoi figli non hai versato neanche una lacrima e, anzi, sei andato al bar subito dopo il bagnetto postparto. E tu, avvicinandoti all’apparecchio, verso le nove e mezza di quel sabato sera con ospiti dediti alla musica sinfonica o alla numismatica, piazzi il famigerato: “cito n’atim ch’ié dré a veisg”, accompagnato da gesti nervosi con le mani e aria da resa dei conti contro il Rapperswil o altri majapom. Più tardi, da solo nella placidità del dormiveglia, tra nevi di un tempo e gallerie buie, sull’onda dei traballanti elementi forniti dal Lolli, immagini il gol. Non finirà mai.
gene
Postilla
Testo internazionale: sostituendo alcune parole-chiave è adattabile a tutte le passioni e a ogni squadra (tranne una).
g.