Vago per la città con il Pass in tasca, pensando a come liberarmene. Operazione vietata.
– Al collo, cittadino! – dicono ai blocchi. Al terzo richiamo scatta il limite di circolazione, oltre il tuo Areale non puoi andare.
La città è sezionata in 24 Areali. 21, distinti dall’A alla Zeta, sono per abitazioni e uffici, ciascuno con una centrale di polizia; l’Areale Corona è sede del Municipio, delle banche, delle amministrazioni e delle holding; l’Areale Lampo è sede dei vettori di energia e dei centri di ricerca; l’Areale Acciaio è quello delle Forze Armate e di Polizia, oltre che delle aziende preposte alla manutenzione della Città. Una geometria tracciata con il satellite quando fu presa la decisione di mettere ordine. Ogni Areale è una muraglia di palazzi.
Dieci anni fa, prima della Grande Trasformazione, tra vie e piazze piene di locali, bar e cinema, la popolazione si spostava libera tra parchi e alberi. Gli spazi pubblici non erano molti, già consumati dall’urbanizzazione precedente, ma resistevano. C’erano confusione e precarietà tipiche delle città del Novecento, periferie e slums compresi. Poliziotti e agenti privati non bastavano più e vennero posate telecamere su ogni edificio, a tutti gli angoli. La visione richiedeva un sacco di tempo e denaro, e l’amministrazione comunale non poteva più star dietro alle migliaia di immagini al giorno.
Fu allora che la Città fu venduta, a pezzi, dopo averla sezionata a quadratini mappali. Il Comune vendette ai migliori offerenti gli spazi pubblici di questi quadrati, rinominati Areali, capitalizzando una montagna di denaro che servì per sfrattare i cittadini e a riammetterli agli alloggi dei nuovi proprietari, holding edilizie con mercato mondiale che sbatterono giù quasi tutto e ricostruirono occupando molto più spazio in larghezza, tagliando piante e occupando piazze, e in altezza, senza curarsi dell’estetica. I cittadini abbienti furono fatti tornare, i poveri no. Da allora, di propria volontà, nessuno esce dalla Città, che è un guscio di massima sicurezza per il cittadino.

Giunsero in modo controllato altri benestanti da ogni parte del mondo e la Città raddoppiò il numero di abitanti nel giro di due anni. Il Comune, già debordante di nuove ricchezze, lasciò ai proprietari delle holding la gestione della sicurezza. Con dei semplici Pass digitali, come quello che ho in tasca, misero tutto sotto controllo, dai rumori agli spostamenti. Passare da un Areale all’altro, ora, è come attraversare una frontiera. Non ci sono fili spinati, ma giganteschi metal detector, robot armati e rilevatori di dati. Dentro gli Areali ci sono blocchi di polizia privata che controllano a sorpresa. Il Pass ha tutti i dati personali del cittadino, compreso il dna e l’albero genealogico. Ogni movimento di denaro è scritto lì dentro, come pure lo stato di salute, monitorato due volte l’anno per legge. La tua vita là dentro. Se perdi il Pass la prima volta, devi attendere a casa fino all’arrivo di quello nuovo; alla seconda non puoi uscire dall’Areale dove vivi per tre mesi; alla terza distrazione c’è il confino a domicilio a tempo indeterminato e se non hai un reddito superiore a diecimila scatta l’esilio, la cacciata dalla Città.
Non ho il coraggio di andare via di mia spontanea volontà, come tutti ho paura del mondo fuori, ho moglie e figli, un lavoro sicuro, anche se sotto la soglia critica di reddito. Ma non sento cantare e gridare da anni, non vedo bambini in strada a giocare, non conosco più la dolce notte in piazza con gli amici. Al calare del sole non si vede più nessuno. Si lavora, si mangia, si dorme. Gli amici… scomparsi… Penso sempre più spesso a mia madre sola e lontana, fuori dalla città.
Sono ormai al secondo smarrimento di Pass, so che il rischio è altissimo. Ma lo corro, per pavidità, per non dover prendere decisioni. Che ci pensino loro a sbattermi fuori, se proprio si dovrà. Getto il Pass dentro un tombino lucente (tutto nella Città luccica). Alla trasversale 22 dell’Areale D mi fermano. Non frugano mai, non serve.
– Favorisca il Pass, visto che non lo tiene al collo – mi dice il poliziotto guardando altrove.
– L’ho perso.
Mi portano in centrale e con l’esame dell’iride risalgono alla mia identità. Trenta secondi. Mi riaccompagnano a casa. Una settimana dopo arriva la decisione:
“Lei deve lasciare la città.”
Sono sollevato e spaventato all’idea di un mondo nuovo. Lo dico a mia moglie e ai miei figli.
– Noi non veniamo, tu sei un criminale. Noi il Pass lo abbiamo – enuncia lei, come se parlasse a nome di tutti.
E mi guardano come se non fossi mai esistito.
gene
Postilla
Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre.
Da Taxi Driver

si fuma in pace e si ganassa senza picchi. Quando il bere aumenta di quantità e mescolanze, il Cicio comincia a storpiare nomi senza accorgersene. Di solito basterebbe mangiare un boccone, il Dany ad esempio lo fa, col Denco a sostegno. Io tengo botta col Cicio, che alla deriva improvvisa messa con lo sclafsach come saio e poi piazza una radiocronaca di una partita che concepisce solo lui.

sei falso, quando giustifichi la sicurezza con controlli e leggi sei falso. Sei nato falso. Quando sembri contento di vedermi sei falso, quando fai la morale sei falso. Quando ti vesti, quando sei dietro a un microfono, quando sorridi ai tuoi elettori, quando spieghi alla Nazione che la legge e le regole sono così e cosà, sei falso al quadrato. Falso anche quando sorridi in pubblico stringendo tua moglie, e per osmosi è falsa anche lei. Quando ti discolpi, quando tuoni appassionato, quando assembli metafore: sei falso. Quando contrito comunichi a qualcuno che hai fatto tutto quanto potevi ma purtroppo le cose vanno così, sei falso, falso e ancora falso. Quando posti parole e foto very social delle tue azioni umanitarie in Nepal o il tuo radioso sorriso al congresso del partito, quando inauguri la mostra d’arte o il museo del territorio, quando sei al concerto o al festival del cinema, sei un falso. Quando mi chiedi come va, sei falso, e sei falso quando ringrazi la perfetta organizzazione. Sei falso quando inviti a votare sì e anche quando inviti a votare no. Sei falso quando stai in Parlamento fingendo interesse, falso quando dal pulpito ti rivolgi a quella che chiami “la nostra gente”, quando dormi o quando ti indigni con un avversario o un delinquente. Sei falso perfino quando tradisci. Sono false le tue idee, sono falsi i tuoi programmi, false le tue promesse, falsa la tua rappresentanza. È falsa la tua vita. Sei falso tu.
trasformata in un dolce desiderio e verso le quattro del pomeriggio arroventò in passione. Stava impastando malta da ore, senza pausa, fantasticando sulle morbide forme che il roteare dell’impasto inventava e mutava a ogni giro. Il mattino, il giovane muratore scattava a ogni richiesta di un secchio pieno, ma nello scorrere rovente delle ore la solerzia s’afflosciava nella libido. Ormai non sentiva che languore nelle ossa, come se le vene irrorassero oppio. Mescolava e palava, riempiva e agganciava il secchio con la meccanica di chi ha la testa irrimediabilmente altrove, alle rotondità, alla pelle vellutata, alle sue labbra che assaporano, al succo vibrante sulla punta della lingua. L’attesa ormai una febbre, il tempo un lento nemico, il lavoro un tormento, la sua anima un abbandono. Vennero le sei, si lavò le mani con cura, cercando di tenere a bada la frenesia, poi inforcò la bicicletta e attraversò il paese come se dovesse correre a spegnere un fuoco, quel fuoco che lo divorava. Saltò di sella al volo, balzò sugli scalini, infilò la porta aperta correndo in cucina e la vide, luminosa e provocante come se non attendesse altro che le sue labbra su di lei. Governando l’impeto con maestria, la morse con lentezza soave, indugiando sulla lieve peluria, e solo dopo un tempo infinito d’animalesca lussuria riuscì a ripescare un pensiero razionale.