Era nata bene, la Miranda. Una banale infanzia felice, in tempi duri per altri. I semi dell’uguaglianza e dell’altruismo le fiorirono dentro. C’era da studiare, ma le piaceva. Intelligente, bella, elegante. Lavorò a ciò che aveva studiato, con spinte sociali sempre vive e applicate con talento.
La cercarono i politici, poteva servire.
Gavetta nel suo villaggio e poi ferma scalata alle gerarchie regionali. Avanzava sicura. Candidata socialista al governo, applaudita per le idee, ammirata per la bellezza. Perse. Ma forse solo perché in quel momento il socialismo era stremato.
Tornò all’opera nel suo villaggio, la giunta la relegò a responsabile del cimitero, prima
donna a tale onorevole mansione, le dissero. La Miranda la prese male, era dei vivi che voleva occuparsi. E invece, il cimitero! Sorrise allo scherno, ma rintanata nella sua solitudine pianse di rabbia, covando rivalsa. Prese a riordinare aiuole, misurando distanze e altezze. La sua furia produsse il cimitero più allineato che la memoria del villaggio ricordasse.
Ma i morti restavano morti e alle riunioni della giunta qualcuno le ricordava sempre questo trascurabile fatto. La Miranda ribolliva, tra regole per la grafia degli epitaffi e il colore dei marmi.
Cercò un’idea e la trovò.
Una notte di maestrale, posò cento colli di bottiglia sulle mura del cimitero. Il sibilare del vento ne trasse suoni lamentosi e sinistri. Il mattino di buon ora, tolse e nascose tutto. Rifece l’operazione per mesi, inafferrabile come un’ombra della notte, insospettabile angelo del ghiaietto che pettinava di giorno con cura quasi materna.
Nessuno dormiva più, in quelle notti terribili, con le voci dei morti a distruggere nervi, disseccando cuori.
L’inquietudine avvinghiò la comunità. Al cimitero, di notte, non si avvicinava anima viva, mentre la Miranda s’invasava di vendetta.
Poi, si cominciò a dire che i turbamenti dei defunti erano proprio colpa della Miranda. La voce dilagò come fiamma. La giunta, subissata di proteste, alla fine cedette e le tolse il cimitero, degradandola alla raccolta delle uova per il convento. La Miranda mandò all’inferno il frate e il villaggio intero e fuggì a Cuba, dove dicono tenga sempre tra le mani una bambolina di cera e una scatola di spilli.
gene
Postilla
Ofeléi fa ‘l te mesctéi

alla fine del mondo, sono andati avanti a giocare nel vento, con regole tutte loro. Dalle porte a misura variabile, ai palloni con materiali alternativi, altro che tecnologia foraggiata dal lavoro minorile. Battuti i tedeschi nella memorabile finale dimenticata, hanno ripreso le loro cose e il loro calcio immaginifico. L’altroieri, nel cuore dell’Inghilterra, il falegname mapuche Leonardo Ulloa ha messo in piedi due invenzioni che hanno spinto la sua squadra, il Leicester, a tre punti dall’inopinato titolo di campione. In campo solo per l’assenza del cannoniere Jamie Vardy, Leonardo ha forzato la scatoletta dello Swansea con un colpo di testa a cinque metri dalla porta, battendo sul tempo tre o quattro giganti sassoni. Verso la fine, si è lanciato in scivolata sul pallone della gloria, e sembrava vestito di piume quando correva libero e ridente, mentre il suo papà Claudio Ranieri ricominciava a piangere. Mi sembra di sentire Osvaldo Soriano che ridacchia e lo immagino mentre fa gesti poco signorili nei confronti delle stelle. Ulloa e Soriano sono figli della stessa terra, della stessa storia, delle stesse dune, degli stessi margini scavalcati con la poesia, della stessa minoranza gigantesca. Vestono di piume e come piume sono leggeri nella loro eternità di gol inammissibili.
corridoio a tre anni, mi si freddava il pranzo a dieci. A sedici, mentre altri amici ridevano al bar, mi cuocevo l’orecchio destro nel tener su la testa con la mano mentre leggevo nel buio della sera, che so, cose come Fontamara o Metello, Uomo Ragno o Tex. Poi, decenni a recalcitrare tra obblighi incombenti e letture sacrificate. Oggi, nel silenzio che mi costruisco con la cura di un artigiano, io vivo nel libro e sono perfino capace di scriverne uno tutto mio, pensate.
che mi dici cosa non devo fare io, che non vuoi che io faccia. Chi sei? Un morigerato, un inane o un fustigatore? Un equilibrato equilibrista?
frontiere agli Stati, spariti i vecchi nomi politici degli Stati stessi, ci trovammo tra le mani il pianeta libero. I soli confini erano i cieli, che lo spazio non l’avevamo colonizzato a causa dell’inadeguatezza dei nostri miseri mezzi aerei. Una fortuna e una sfortuna assieme. Non poter fuggire verso altri mondi provocò guerre, carestie e morti milionarie, ma nel contempo ci impedì di allargare le frontiere del male all’universo intero. Restammo qua, sulla terra, molto meno numerosi di prima, più bisognosi l’uno dell’altro e solidali di fronte alle necessità della fame e della sete. Governare tutto questo era un passo necessario per non ripetere gli orrori di un passato che ci aveva portato alla catastrofe, a un passo dalla distruzione totale.