Il grotto era pieno, dentro e fuori, di stanziali, passanti, esploratori. C’era tutto, compreso lo schermo gigante, col geeratore a balla che copriva il sound ma non le urla di dolore ai maledetti rigori. Prima di chiudere per sempre questo capitolo, ci tengo a dire che Zidane ha fatto bene, almeno quello.
Ma in realtà è d’altro che bisogna raccontare, del progetto e della messa in funzione del

campo di bocce che giaceva abbandonato in fondo al giardino.
Il Zine, che prima io non conoscevo, s’era presentato un giorno con l’entusiasmo adolescente dei suoi settant’anni.
– Te sè el gerent? Ga và met a posct el camp di bocc.
Lo disse con la fermezza che non ammette obiezioni.
– Avevo in mente di farlo, c’è il mio amico Gastone che si è offerto di darmi una mano.
Il Zine, incassata l’adesione, poi non ne parlò più per tre settimane.
– Allora, quando cominciamo col campo? – gli chiesi un giorno con cautela, pensando che magari s’era scordato o gliene fosse passata la voglia.
– Te dii che t’el fè col to soci d’Ascona…
Era offesissimo, ma ingannato dalla sua stessa durezza d’orecchio.
– Il mio socio Gastone, non il mio socio d’Ascona!
– Ah bon.
Rasserenato, si mise all’opera. Portò carrettate di quella sabbia finissima che balza fuori dal granito tagliato in cava. Fissella, staggia, livello, cazzuola, secchi, badili diventarono prioritari, e che la cucina aspettasse e con essa anche i viandanti che si fermavano a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Affidai tutto alla Valeria, la mia cameriera buddista, che con la sua pace servì tutti per quasi due settimane, tollerando i due bambini che giocavano alla sabbia in fondo al giardino.
L’amico Gastone si presentò all’inaugurazione, giustificando l’assenza ai lavori con i soliti motivi familiari e di trasferta. Poi però divenne assiduo, sorbendosi sessanta chilometri all’andata e sessanta al ritorno. Per giocare certo, ma anche per la Valeria.
L’amico Gastone stette al grotto a dormire più di quanto necessitasse l’ingurgitare bibite alcoliche, ma credo non sia andato oltre il due di picche, però può essere di no. Vero che la Valeria aveva un moroso guru che le aveva lavato via le debolezze della carne, non solo quella nel piatto, però pareva contenta quando il Gastone stazionava al bar afflitto dal gomito del bancone, nota patologia di noi perditempo.
Il campo fu varato in una splendida sera di luglio e per l’occasione il Frediano, con l’autorevolezza da responsabile della pagina regionale delle bocce, nonché da presidente del Dogana, fece apparire un set di bocce quasi nuove, infilate in una borsa sportiva un po’ demodée con la scritta Bocce Club Verbania.
– I doprava pü – spiegò innocente.
Apparvero anche tutti gli abitanti del paese: vecchi, bambini, uomini, donne, più la presenza occasionale di alcuni tedeschi ingolfati di birrette. La prova funzionò benissimo, anche se qualche anziano campione cristonava perché in certi posti del campo le bocce non si fermavano, ruotavano senza ritegno, saltellavano su sassolini invisibili. Un profluvio di scuse accompagnava ogni cappellata, ma fu una goduria fino alle tre del mattino.
La cosa andò avanti in modo trionfale per il resto dell’estate e metà dell’autunno. Il Zine fu glorificato da sperticate lodi per lo splendido lavoro. Ogni giorno arrivava a bagnare e lisciare, togliere foglie e provare traiettorie. Solo che, fumantino com’era, si adombrava ai suoi cali di forma e allora diventava intrattabile e l’aspetto ricreativo mutava in competizione dura e pura. Esigeva l’arbitro e imponeva di misurare punti che lo vedevano perdente di mezzo metro e più. Non accettava la valutazione a occhio e metteva in atto una persistente strategia psicologica per innervosire l’avversario e poi sbeffeggiarlo se la faceva franca.
Quando la disputa si faceva accesa andando fuori controllo, annunciava offesissimo:
– Basta, a vegni pü!
E pigliava le sue bocce e spariva imbufalito. Accadeva almeno una volta a settimana.
Poi, nei giorni seguenti il ritiro, tornava al campo ma stava lì solo come spettatore, fingendo disinteresse ma fremendo dalla voglia di giocare. Alla millesima invocazione, cominciava a titubare, ma sempre sostenuto.
– Dai, giüga no!
– No! o dii c’a giüghi pü.
Ma poi tornava a giocare, dapprima sportivo e rilassato, persino tollerante e magnanimo, ma dopo tre partite era già alle misurazioni inutili e alle azioni di disturbo.
– Scbajada! – gridava, mentre il bocciatore di turno era già in rincorsa.
Se il bocciatore sbagliava davvero e protestava per la scorrettezza, lui faceva l’indiano dicendo all’altro (spesse volte ero io) che se non era capace poteva anche stare a casa. Ma se il piano non funzionava e il pac! della boccia avversaria sanciva il colpo riuscito, rilanciava.
– Domà cüu!
Il Gastone ancora flirtava in bianco quando la stagione finì e si chiuse il grotto con una cena da tregenda e seguente minitorneo, che non fu conteggiato perché i partecipanti erano chiaramente alterati.
Il Zine fece un discorso appassionato sull’anno a venire, con un programma di massima di tornei amatoriali e agonistici, di musica e migliorie da fare al terreno da gioco. Tutti applaudirono, bevvero e si dissero pronti a collaborare, immaginando perfino la costituzione della Bocciofila Sonlèrt.
Solo che l’anno dopo il grotto non riaprì e il campo tornò ad essere una boscaglia. Ogni traccia è scomparsa.
Ieri abbiamo fatto una cantata tra soci e il Zine si è commosso quando abbiamo intonato il motivo che vorrebbe per il suo funerale.
gene
Postilla
Là, cala il vento nella valle.
Un mattino come tanti
nasce l’uomo.
Schola Cantorum