Un giorno che sembra splendido con tutto quel sole di gennaio, ma è nero. Anche quel sole
è fuori luogo, tutto è fuori luogo.
Due ore prima stavo in balcone a pensare alla vita, quella negata in tante parti della Terra, e la luce non la sopportavo. Era il mio giorno libero, non mi andava di macerarlo a quel modo e mi feci un bianco col campari.
È squillato il telefono.
– Ciao, sono io. Lo so che sei libera oggi ma c’è un lavoretto urgente da concludere e siamo scoperti perché ci sono stati incidenti a Malvaglia e casini al carnevale di Lostallo. Puoi venire?
Certo che potevo, un diversivo al mio pessimo umore. Lavorare mi impegna e mi distrae.
Sono arrivata al palazzone, il guardiano mi ha salutata. I due agenti di sicurezza hanno bofonchiato infastiditi. Ho salito le scale fino all’ufficio. Sono entrata.
– Eccomi qua, in quale studio devo andare?
– Beh… non so come dirtelo…
– Dirmi cosa?
– Sei licenziata…
Vent’anni sono crollati sul tappeto di colpo. Non ho trovato nessun suono da far uscire dal gozzo rinserrato.
Sono uscita dall’ufficio del responsabile e sono andata nel mio. Un impiegato mi ha raggiunta dicendomi che non potevo stare lì e che dovevo liberare il locale in venti minuti.
Dopo un quarto d’ora, sono arrivati i due agenti con una scatola, vi hanno buttato dentro quelle quattro carabattole che tenevo sulla scrivania, compresa la foto dei miei figli. Uno ha preso la scatola e l’altro me, per un braccio. Alle undici e ventiquattro ero fuori, sola, con il tempo di alcuni sguardi imbarazzati e sfuggenti di colleghi.
Sono tornata a casa a piedi, un’ora di apnea con la scatola sulle spalle come una siriana.
Appena dentro, ho aperto la corrispondenza e c’era la bolletta del canone obbligatorio per legge da poco accettata.
Alla radio, che era rimasta accesa, ho sentito il direttore dell’azienda dire che se potesse tornare indietro non farebbe ciò che ha fatto.
Tutto è esploso. Ho preso lo sgabello di frassino e ho fracassato l’apparecchio. Poi ho bruciato la bolletta del canone, in giardino. I pezzi di carta incenerita volavano nel blu come corvi lontani.
Non ho ancora parlato, posso solo scrivere.
gene
Postilla
Nessun potere in sé è buono
Fabrizio De Andrè

da quella incerta di una performer che vagava nei begli arrangiamenti argentini dalla fisarmonica del Caldelari senza ben sapere come porsi. Poi, la magia ingabbiata non ce l’ha fatta più e sulle note della Verzaschina il popolo si è alzato in coro e le voci hanno svegliato lo spirito di Vittorio Castelnuovo, impareggiabile cantastorie della Riviera, partito per l’ultimo viaggio qualche anno fa.
impazziscono di tanto.
ploc ploc della pioggia sulla tesa, con le gocce a rivoli e una dopo l’altra cadevano a quattro dita dal viso. Lo tenevo a volte anche per ripararmi dal sole, e così facevano altri uomini e altre donne, senza che nessuno le obbligasse a coprire lo splendore dei capelli, ma così, per diletto. Lo toglievo nella discesa verso la piazza, quando la pedalata si faceva intensa e il gusto dell’aria accarezzava il capo come vino al palato. L’ho lanciato in aria per un gol o un matrimonio, l’ho tenuto tra le mani a funerali e dentro uffici. Non ho mai pregato, ma a tavola lo levavo, appoggiandolo da qualche parte, però in modo da poterlo sempre vedere, anche di sbieco.
guerra trovarono rifugio in Svizzera. Ma venivano privati dei loro averi, per compensare le spese che la Confederazione sosteneva per accoglierli – per non parlare dell’oro rubato dai nazisti e custodito nelle nostre banche, una questione che ha fatto vergognare noi che siamo nati a guerra finita da un pezzo.