La zia Annie ci diceva: “Nei mighi a fèe comedi da fass tecièe.” Chaque fois. E con quel bel pieno di fiducia partivamo responsabili. A carnevale, in montagna o all’Hallenstadion che fosse. Prima, da minori, a piedi o in autostop, poi con i catenacci dell’esordio motorizzato di chiunque non caghi più in alto del culo (questo era un ammonimento del Pa’). Una volta anche in bus, per Roma. Tranquilli, che tanto lì non teciano quasi nessuno e, se proprio, devi farla davvero più alta del culo per finire ar gabbio. Siamo anche capitati per sbaglio alla predica del Papa, in fondo alla piazza a mangiare delle salsicce. E poi in una edicola, la signora ci chiese quale lingua parlavamo. “Un antico dialetto celtico”, rispose il Mac. A Zurigo, in un locale notturno, il Dani spiegò che eravamo rumeni. Il mattino la polizia ci sequestrò l’auto, il pomeriggio riempimmo d’insalata il pianoforte verticale della Tochter Pension e la sera portammo fuori, annunciandoci come inservienti, due cartelloni in pavatex 205×255 del Country Festival. Con l’auto recuperata pagando cash 600 franchi (sau tschink) li trasportammo nel buio della città, il Nick e il Bicio seduti nel baule aperto, le gambe penzoloni e i cartelloni ben stretti nelle mani che sventolavano eroici sull’Hardbrücke. Fino alla casa della Nilde, il Bruno cioè. Forse sono ancora lì. In montagna non c’era la polizia, neanche quando prese fuoco la trave del camino, dove dardeggiava mezzo metro di brace che termoselezionava in tre secondi anche le tolle della birra. Mai portato indietro un rifiuto. Al ritorno, la zia Annie chiedeva sempre, in un mix di ansia e rassegnazione: “A i facc pulito?” Certo che sì. Allora era contenta.
Sul finire del terzo millennio fui costretto a un viaggio dal quale non so come feci a tornare.
Ero in pace, non felice ma appagato nelle abitudini. Ma arrivò il giorno che ci obbligarono a entrare nel Monolite. Prima avevo un lavoro dignitoso, in giro per la Svizzera ammantata di verde o di bianco a commentare partite di calcio. Moglie fedele e figli rispettosi. C’erano guerre ovunque, ci arrivavano in casa da tutti gli schermi che avevamo, ma noi stavamo bene in mezzo alla natura e alla buona educazione che si tramandava da generazioni. Neutrali come ci definivano tutti, potevamo ignorare i rancori mondiali, anche se quando andavamo fuori dai confini ci tacciavano spesso di egoismo. Questo era il quadro. Mi mancava qualcosa, certo, senza sapere, ma chi non si sente così? Non importava quasi a nessuno che in alcune linee di terra il governo avesse cominciato a scavare. Cubi di cemento sotterranei che emergevano dal sottosuolo per meno di un metro. Sembravano tartarughe, ma erano bunker. Rifugi per la popolazione in caso di guerra, li definirono, e in pochi protestarono anche perché le guerre lontane avrebbero potuto avvicinarsi. Si adduceva anche al Ridotto Alpino quale deterrente durante la Seconda Guerra Mondiale, non costava nulla crederci. C’era una brutta aria, però. I Monoliti, come prendemmo a chiamarli, si moltiplicarono. E arrivò l’esercito, ci furono scontri nelle strade, qualcuno morì, ma alla fine ci mettemmo in fila senza rimostranze, almeno io. – Troverete le provviste nei Rifugi. Ci rimarrete solo il tempo necessario per far passare la guerra. – Lo dissero con calma, ma in divisa da combattimento. Pensavo di poterci andare con la moglie e i figli e con gli altri del mio paese. Invece mi separarono, mi condussero a Morgarten e mi dissero di entrare nel Rifugio, con altri cittadini a me affini, secondo loro. Non pensai molto al modo di scegliere le affinità, non c’era tempo. Entrai e chiusero la botola. C’era luce, tutto illuminato, e vidi i miei compagni, gli affini. Non conoscevo nessuno e nessuno parlava, potevamo essere di qualsiasi lingua. Una grande camera con una dozzina di aperture, cunicoli. Che altro fare se non imboccarne uno? Non mi andava di stare fermo ad aspettare, che cosa poi? Mi seguì solo un ragazzo.
Non so quanti giorni, o notti, camminammo. Trovammo cibo in scatola, acqua da bere e per lavarci. Nient’altro. Non sapevo se andavamo in discesa, in salita, a destra o a sinistra. A volte faceva caldissimo ed era difficile dormire con le luci del cunicolo sempre accese. Il ragazzo non parlava, e nemmeno io, ma lui non mostrava mai stanchezza e mi aiutava ad aprire le scatole se avevo freddo alle mani, mi puliva il viso quando la voglia mi si inabissava, mi preparava il giaciglio. A volte arrivavo a un respiro dal parlargli, ma il suo volto manifestava un gentile diniego, in anticipo sulla mia voce. Poi il cunicolo sembrò salire, prima in modo impercettibile poi sempre più ripido. Le nostre ombre rimanevano dietro, allungate come se volessero lasciarci. A un certo punto, quando il tempo non era già più considerato un’unità di misura e non sapevo se fossero passati giorni o mesi, giungemmo a una grande camera, più vasta di quella che ci aveva accolti ma senza altre persone. E, uguale all’altra, una botola. – Sono qui per obbligarti ad uscire – disse il ragazzo, in non so quale lingua che però capivo come fosse la mia. – E se io non volessi? – L’altra scelta che hai è tornare indietro. Vuoi? – No. Alzai la botola. Mi avvolse una luce flebile ma limpida, simile a quella dei sogni, che non ferì i miei occhi. Uscii, mi alzai in piedi. Si vedeva lontanissimo. Non c’era niente, uno spazio vuoto denso di un suono e un profumo ignoto, non saprei come dire altrimenti. Mi girai. Anche il Monolite era sparito e io fluttuavo sentendo la mia essenza rivelarsi. Tutto qua, infinito.
La mia Patria non la trovo più. Ci sarebbe, ma a ogni passo varco un confine, ogni zolla è trafitta da una bandierina che segnala “Tu sei mia”. La mia Patria è smembrata. Sminuzzata, la mia Patria è percorsa da milioni di cicatrici, tanti sono gli uomini e le donne che la abitano e che la posseggono, o che ne vogliono un brandello. Non si parlano tra loro, tra sospetto e avidità, in bilico sulla zolla, allo sventolare della bandierina come conforto, come potere. La frontiera da scoprire non si vede, l’orizzonte è ridotto alla difesa di centimetri quadrati, l’acqua paga dazio goccia a goccia, l’aria è in scatola, i pensieri chiusi. Forse tutti assieme, con i poveri e i malati, andrebbe meglio e la mia Patria tornerebbe tutta intera, senza bandierine, senza sospetto, senza avarizia. Oggi la tengo nel cuore, che non ha confini, e a occhi chiusi non ascolto alcuna ode.
Nascere prima della Patria è già segno di prontezza, a dire: io sono qua e ora tocca a voi, mostratevi Giorgia è sempre avanti, magari un passetto solo di futuro nel passato stanco dei petardi fragorosi Viaggia all’incontrario nell’emigrazione e la scoperta, dalla terra ricca all’ignoto capitale di Berlino È una inquietudine, una ricerca dell’amore quello suo che spinge al canto mattutino e quello altrui così difficile e nascosto al cuore Voler vedere cosa si trova oltre quel cielo forse radici prussiane e antiche, sgomente nella guerra; o libertà dei sensi senza sguardi inquisitori; oppure ancora una diversa luce della sera che dal Visagno Padre si spinge sotto i tigli A me che resto qua, fermo nei viaggi immaginari, giunge Giorgia con le ragioni della vita, la mia e la sua Un complemento del presente che ci spinge ancora avanti, e i millenni saranno ancora nostri, padre e figlia
gene
Nota – Giorgia è mia figlia e a volte guarda me come se il figlio fossi io. Oggi compie gli anni.
“Affiorarono valli dissepolte, ancora spoglie, e i Prodigi vi incontrarono il pensiero. Dovendo immaginare, furono chiamati a ragioni sconosciute e imposte nell’attesa. Si ancorarono, i Prodigi, a luoghi certi, costruzioni mobili e poi ferme, le valli di suolo profumato, gemme e fiori.” (GeSi)
La Valle Bavona, ancora affranta, ha bisogno di aiuto. Mate y Moka è luogo di ristoro, uno spazio aperto che ora è però isolato dal mondo e ogni possibilità di lavoro è preclusa. Silvana Rodriguez ha pensato dunque di lavorare con le immagini per mostrare il mondo bavonese con la forza dell’Arte, certo, ma pure per procurarsi il Pane. Nel sito ci sono le sue mirabili fotografie, in vendita, in attesa di viaggiare in altre case generose. Anche così ci si rialza dalla catastrofe.
Accerchiati come ormai siamo accaventiquattro da notizie e immagini che vanno da Bignasco a Kiev, passando da Gaza e Taiwan, non ce la facciamo più a ridere. Più sono loschi i figuri che ingombrano gli schermi e le orecchie, meno alziamo le spalle seppellendoli con il cinismo, o almeno con l’indifferenza. Anzi, cerchiamo perfino di imitarli. Abbiamo perso il contatto con le cose reali, e tra esse i rapporti fisici e i rapporti intuitivi. Non riuscirò a spiegarla bene questa faccenda, lo so, e invece di provocare sane risate rischio di incamerare insulti, e ci sta, oppure quei sottintesi da retropensiero ferreo ammantati di slealtà, il che è decisamente peggio. Bene, eh bon, bene… Dunque. Se dico qualcosa di provocatorio, ma con la chiara intenzione di divertire, o almeno di portare in superficie qualche idea press’ a poco originale, finisco invece sfinito a spiegare il pensiero e soprattutto la sua intonazione, senza ottenere responso e incartandomi senza speranza, come quando cerchi di giustificare una tal cosa e più vai avanti e più diventi in-credibile anche alle tue stesse orecchie, figurarsi a quelle degli altri. Io penso che ciò succede perché abbiamo troppi interlocutori con i quali non abbiamo condiviso neanche una birra. Cioè: sono io che parlo a vanvera con tizi e tizie che pur abitando a tre chilometri da me, sono più alieni del cileno in facebook. La controprova di ciò è data quando vado a Preonzo, il paese dove sono nato. Lì, incontro questo e quello, più vecchio o più giovane che sia, e subito basta una parola per capirci e ridere di gusto. Ridono anche i bambini e qualche ragazza. Esempio, ma tutti sono circa così. Il Got, piantato al tavolino dei Giuli, e che magari non mi vede da due anni, non mi saluta nemmeno (perdita di tempo da galateo dei bugiardi) e mi chiede: – Cosa fai? – Io rispondo: – El Puda -. Non c’è bisogno di aggiunte, con il dialogo di quattro parole, due a testa, si è aperto un universo, zeppo di ironie, immagini, condivisioni, divertimento, prese in giro, ripicche, risate. Che non sto a spiegare cosa voglia dire “fare il Puda” perché andrebbe a finire male, per me. Perciò voglio dire che allargando le vedute oltre quello che siamo e da dove veniamo, non per conoscenza ma per sottomissione al bombardamento (social)mediatico, noi perdiamo l’umore e lo spirito, tutto diventa banale e il divertimento è concesso solo con orribili e preconfezionate battute. Che stanno all’umorismo come il prosciutto in vaschetta al salame del Cech. Ci vengono propinate come se fossimo ottusi e per farci incamerare meglio qualche notizia sull’odio irresponsabile che pervade questo millennio del cazzo. Lo sapevo che non sarei riuscito a spiegarmi, anche il Got mi dice di piantarla, che ci vogliono i franchi nella vita.