A sem da sosto, mighi da cà. O provò, a gh’è noto da fèe. A vardi la lobio da ca’ e l’é iscì: da sosto. El gabinet dal ziogino, la baraca da au, la tobio dal nonodacrèe, tucc i balcoi, i pogei, i lobi, i tobi, i pertich, i spruch, garage, barach, tenn, cafiot, frasch, arbri. Cal e frec ma da foro. Da sosto, mighi da ca’
Ore di rivolta imminente. Cosa succede tagliando risorse ai più deboli? Il caso del Meo. Un estratto, un corollario, due postille.
(…) Procedere nell’anima, chiamiamola così, del Meo è un andare alla scoperta di mondi nuovi, non già per conquistarli come hanno sempre fatto tutti e sempre, ma per capire e poi scambiare le conoscenze, disagi bellezze misteri sviluppi, senza rubare, senza ferire. Durante la pandemia del 2020, in quei primi tre mesi sconcertanti, siamo rimasti confinati assieme, lui, io e la sua mamma. Prima di esserne stufi, abbiamo costruito un armadio non piccolo, composto una canzone, letto libri, sentito il canto libero degli uccelli e respirato una limpida aria sconosciuta. Poi il Meo, nel finale di gara, si è rotto le balle e ha deciso di non mettersi più le scarpe. Quando hanno riaperto il bar, credo fosse agli inizi di giugno, ci siamo andati a piedi, i suoi nudi, tra un esercito di mascherine. Non si può non ridere, dai. (…)
Ora si ride di meno. Il Meo ha 34 anni e percepisce una rendita di invalidità dallo Stato. Non può lavorare, percepire un salario cioè, anche se però mette un impegno serio in tutte le cose che fa, a casa e in istituto. Se a un tratto la sua rendita venisse ridotta non potrebbe più rifondere la retta all’istituto antroposofico (a sua volta in difficoltà per probabili tagli) e che ha migliorato la sua vita cognitiva e relazionale. Se scattasse il taglio ai sussidi della cassa malati, il Meo dovrebbe fare i conti con i farmaci che lo aiutano in modo determinante per placarne disagi e malori. Il Meo è così da sempre e sarà così per sempre, la sua condizione complessiva non può cambiare: ma è mutevole la sua possibilità di essere in possesso della dignità e della gioia, con l’aiuto degli altri a costruire fiducia. E se si riducono gli aiuti che lo Stato gli dà per decisione decennale, toccherà a noi che lo amiamo trovare una soluzione. Il che va anche bene, ce la faremo. Però nessuno venga più a suonare per un voto o un sostegno; che nessuno passi con un volantino davanti a casa; nessuno reclami sostegni a questo e a quello. Col Meo, ogni volta che andiamo nel bosco, torniamo con un bastone nuovo, gratis.
gene
Postille Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella di un buon rivoluzionario. Ernesto Guevara
Un altro faro acceso sulla mia esistenza è il mio cognome. Tipo: sei parente di quello dei camion? No, siamo dello stesso paese ma non siamo parenti. Poi se ne ho voglia spiego, ma quasi mai. E intanto penso: altri cinque centesimi che se si fossero sommati ai precedenti avrei la pensione garantita, che poi, va bene, l’avrei già sperperata da tempo. Comunque non sono parente di quello dei camion, ma lui lo ricordano tutti e di me si sovvengono in quattro, generalmente per rompermi i maroni. Lo ricordano e me lo chiedono anche a una festa o a un matrimonio, anche se lui è morto una decina di anni fa. E lo ammiro pure, l’omonimo che negli anni Cinquanta, e non aveva nemmeno vent’anni, comprò un camion. Non un’auto, un camion. Da lì ha svuotato montagne, costruito colline, elevato argini, lanciato ponti, innalzato dighe, divorato distanze cingolate, dato lavoro a centinaia di operai, avanti e indietro per tutte le valli e le pianure col suo pessimo carattere a immaginare bitume e scavi. Partendo con un camion solo, vogliamo ricordarlo? E arrivando a una flotta di macchinari e scavatori, a una sfilza di pale e picconi che travolsero di gerra e sabbia gli anni Sessanta, i Settanta, gli Ottanta e lanciandosi nei Novanta con la temerarietà degli operosi. Poi gli girò la fortuna, che fa sempre così, e qualcuno gliela fece pagare, anche perché questo mio omonimo non era proprio accomodante, tra minacce, insulti, piagnistei e prepotenze, in una legge della giungla in cui lui era il primitivo contro i doppiopetti: i calli contro i guanti. Normalmente in questa perenne lotta si perde, capita a tutti e tutte, cari e care; cioè, capita a quelli che ruzzano terra e rotolano massi, mentre quelli del bidet in madreperla e dei formulari labirintici vincono, anche se da perfetti ottusi pensano di farlo per sempre e poi un giorno, sempre troppo lontano, zacchete, life in modalità tavolinomagico senza la capacità di battere neanche un chiodo piccolissimo. Ma anche da sconfitto, il Nostro, è rimasto lì in ditta, un’altra, dalle sei di mattina e per primo, fino a notte fonda e per ultimo. Nelle curve finali della sua vita rombante si è ammalato, ma andava in cantiere con il catetere; dal letto finale esclamò ancora che le cose le avrebbe messe a posto lui, vacaeva. Quindi, vedete poi voi: se mi chiedete del cognome mi incazzo, rispondo, poi incasso e se avanza qualcosa sperpero. In questo, siamo parenti, sì. E stretti.
Te’ tacò ai fej e i fej tachei a tì francò in tere te’ l’ultum a molèe ‘l vistì e pan a metel su ‘me cui sgenn ch’is buto biot in do rièe in feurei pal fastidi o pal piasei, va’ a savei o cui sgenn ch’ié in ritaard pai pensei ma insomo, a quairun ach toco be’ Te stanta pouro fou in novembre a molèe i fej i fa compagnii ‘me i rasoi, a s’al sa a sa stanta a molèe i rasonomenn ch’i ruzzu tucc i miis in di scervei Fej ‘me pensei in ritaard o tampurìu ma sense, peu, fèe quée? Ilé ferm coi radiis?
gene
Sonlert, novembre 2023
Sei attaccato alle foglie e le foglie attaccate a te / fissato in terra sei l’ultimo / a mollare il vestito e anche a metterlo / come quelle persone che si buttano nudi nel riale / in febbraio per il fastidio o il piacere, vai a sapere / quelle persone che sono in ritardo per i pensieri / ma insomma a qualcuno tocca / Fai fatica povero faggio in novembre a mollare le foglie/ fanno compagnia come le ragioni, si sa / si fa fatica a mollare i ragionamenti / che rovistano tutti i mesi nelle cervella / Foglie come pensieri / in ritardo o precoci / ma senza, poi, fare cosa? / Lì fermi con le radici?
Si sono sempre incrociate, a volte sovrapposte, queste due passioni, ma quando smisi con il calcio a metà tempo di una sera senza fiato del duemilaventidue il canto è andato avanti da solo. Mi piace cantare, lo so che pare futile, ma tra il futile e l’inutile prendo tutto quanto. Non faccio questo e quello, non costruisco niente, evito di possedere, logoro i vestiti, spreco frasi, butto via formulari e quei quattro soldi senza remissione, ecco. Stamattina mi sono alzato cantando col pensiero, ripassando le parole che canterò stasera a Bellinzona, città che mi mette sempre malinconia per i tanti affetti e per il pensiero di mia figlia che ora sta a Berlino e che me la ricorda ogni volta che vedo un postale giallo che arriva da Preonzo, ormai quartiere per tutti ma non per me che vorrei rigare la carta d’identità che non lo cita più. Ogni canzone parla di lì, del mio paese, in inglese, in italiano, in dialetto, il resto sono solo colonie più o meno amate. Autoreferenziale ed egocentrico come sono, ho la tolla di scrivere queste cose qua senza il minimo pudore. Non mi sfiora nemmeno il senso del ridicolo e so di cantare peggio del Baracheta ma meglio dei Maneskin; porto la chitarra elettrica da pochi soldi a tracolla che fa il suo effetto soprattutto quando non la suono, lasciando agli altri il peso del talento. Sto pensando a come vestirmi come se nell’armadio in cantina avessi una scelta principesca, ma se potessi ripescare la blusa da falegname sporca di colla e segatura metterei quella (ho pensato anche a una tuta da sci anni Ottanta, ma è andata perduta). All’ultimo riordinerò il classificatore delle canzoni, nella borsa del Denner ho le armoniche a bocca a cui attingerò come un Dylan meno convincente. È possibile che non ascolterà nessuno, come del resto quasi nessuno mi legge, ma boh, magari tanto non cambia niente e a contare è ciò che sento io mentre canto o scrivo. Conta anche che possa sentire i suoni dei compagni, per non sopraffarli, per accordarmi a loro fino a una compattezza collettiva che spesso mi fa lacrimare. Il nostro gruppo è nato quasi quarant’anni fa, ma le cose sciocche della vita ci hanno fatto andare di qua e di là per conto nostro, lavori matrimoni geografia, e ci siamo ritrovati per caso in gennaio e io vorrei che non ci lasciassimo mai più, come quelle antiche squadre di calcio che imperiture continuano nella memoria. Sono come quel prigioniero che dalla cella vede solo il mare e una casa bianca in mezzo al blu, l’immaginazione che diventa vita ed è la sola ormai possibile e proprio per questo non può essere fermata, neanche dall’indifferenza. Io canto perché mi piace, tutte le parole sono mie anche se gli altri le hanno scritte meglio. Io canto perché ho ancora la visione di un mondo bellissimo e aperto, un posto per tutti e senza miserie, soprattutto le mie. Quando il concerto finirà penserò già al prossimo, o almeno a cantare in bicicletta, al supermercato o nel bosco, con gli alberi che mettono nuove foglie in una primavera infinita. È una felicità e un impegno verso chi cantare non sa o non può, per mia madre, per gli amici e per i caduti di tutto il mondo. La prima canzone di stasera è Pugni chiusi, il mio modo malinconico di stare in un tempo che tradisce. Il motivo di questa confessione? Che se muoio prima o durante si sappia almeno che andrò avanti lo stesso.
Di nuovo tu infelice Lupo, che segui le tue leggi innate e non temi che uno solo e sta appostato nei suoi abiti e ti disorienta con i mille odori finti e senza cifra Il tuo Nemico impone a te la fame in fuga eterna e agguati da guerriglia lontano dalle luci artificiali Vive di boati rumorosi il tuo Nemico neghittoso eppure tu non cerchi il bisogno di cacciarlo e nei millenni di menzogne leggendarie e fatue sembri pronto a divorare infanti incappucciati Le tue immutate leggi dagli albori e in ogni luogo s’infrangono a catastrofe contro quelle del Nemico che le inventa poi le adatta e le rimangia senza pena Non le leggi del sangue e del cuore sono quelle ma codici che volano nelle scritture come verbi infrangibili nell’assenza di appetito giornaliero Non per fame sei braccato e additato ad assassino nobile Lupo spogliato dell’essenza primigenia bensì per implacabile terrore di armenti valorosi che del Nemico sono amici da macello all’ora esatta Non una zanna o le fauci verranno ad annientarti ma le bolle di una carta sviluppatasi dagli alberi del bosco dentro al quale ti nascondi non intendendo che da lì verrà lo scritto che il Nemico impugnerà per lo sterminio Per te nessun cordoglio e al Nemico l’onta della gloria