scotta lava sul capo reclinato a riparo e un ombrello da gelato s’offre all’altare dei giusti, senza tregua il magma s’allaga a margherite sorprese e nessuno che ti ama oppure no, resta nera lapide scolpita di anonimi incisi in minore, sotto un ombrello tra la terra e il cielo e frastuono crollato, forse i petali si contano ma non è che parentesi
Il mio lavoro è qui. Era qui. Da queste mura non sono mai potuto uscire perché mi pensavo indispensabile. Mi assunsero un giorno dopo che avevo eliminato il gatto nero della signora Rosa Capone. Non fu una scelta proprio mia: fui avvertito del compito da un signore attempato che si presentò come il cugino di Rosa Capone e che non avevo mai visto e mai più rividi. – Perché non lo uccide lei? – chiesi con logica, e senza nessun tono di rimprovero. – Non ne ho il cuore – rispose lui avvilito. – E tra pochi minuti devo prendere il treno. La prego, faccia quel che le chiedo.- Non potei dire di no. Notai che era vestito come me, aveva la stessa statura e forse anche gli stessi capelli. Fui contento di vederlo andare via. Ammazzai il gatto della signora Rosa Capone con un piede di porco. Il mattino seguente bussarono alla mia porta. Due signori. Mi condussero fuori città, attraverso la campagna disabitata fino a un grande edificio. Un cancello e poi un vasto cortile. Salimmo le scale dell’edificio e i due signori mi lasciarono davanti a una porta, dicendomi di aspettare con pazienza.
Mi assunsero a tempo pieno nell’edificio. Il mio compito, per tutti e sette i giorni della settimana e per i dodici mesi degli anni di lavoro che mi toccarono, fino a ieri, era vigilare e coordinare, e in seguito agire con capacità di discernimento. Capo degli Inservienti e Ministro della Sfortuna. Due incarichi. Questo facevo. Se per la prima delle mie mansioni bastava la mia innata capacità di comando e delega, e quindi non starò a dilungarmi sulla sua noiosa e banale ripetitività, per la seconda mi toccava fare tutto da solo, con inventiva e occhio svelto, visto che nessuno era all’altezza della mia competenza e reattività agli accadimenti.
Nel tempo ebbi molti assistenti, ma duravano poco perché nei miei rapporti redatti con scrupolo sollevavo severe e fondate critiche sulle loro capacità. Dalla direzione insistettero però sempre per affidarmi nuovi colleghi, che mi erano di grande intralcio. Più volte chiesi in modo accorato alla direzione di poter proseguire il lavoro da solo. Ma mi si spiegò che la formazione di altri addetti alla Sfortuna era necessaria, nel caso io mi fossi assentato per qualche importante e inderogabile motivo. Non mi assentai mai e pure a Natale e a Pasqua tutto passava sotto il mio controllo, e le feste erano davvero spensierate e senza minacce occulte. Solo una volta al mese rimanevo nella mia stanza a riposare, nutrito e servito come un principe. Poi, dopo qualche tempo, potevo stare nel mio alloggio un giorno per settimana, ma non ero tranquillo. Per l’inaffidabilità dei miei assistenti, il giorno seguente c’era sempre un lavoro enorme. Lenire gli spaventi degli ospiti dell’edificio, placarne le turbe emotive e comportamentali.
Nessuno mai venne a farmi visita. Solo missive anonime, lettere senza francobollo che comparivano sul mio letto a intervalli di tempo irregolari e dilatati. Tutte con lo stesso testo. “Quando uscirai, noi saremo lì ad aspettarti. È una promessa.” Non avendo identità, niente ansia d’attesa, nessun pensiero.
Era talmente gravoso il mio compito, che di notte sognavo di specchi rotti, di numeri volanti, di oscuri tarocchi. E tutto si ripresentava appena desto. Non appena definiti i compiti del personale, correvo a perlustrare l’edificio in cerca dei segni e delle manifestazioni, instancabili, della Sfortuna. Sequestravo le carte di chi giocava a scopa, impedivo il passaggio sotto le scale degli imbianchini. Di mio, per esperienza, gettavo sale alle mie spalle, incrociavo le dita, facevo rispettare le fasi lunari, divinavo nei fondi di caffè. Giorni interi a camminare all’indietro e a scandagliare la cucina in cerca di spezie maledette e pentole di rame ribollenti. La mia tuta da lavoro, sempre immacolata, non recava il mio nome per poter agire in completo incognito, privando di ogni sospetto i frequenti incantatori, regolarmente ridotti all’impotenza.
Mi rilassavo un po’ alle recite mensili, sul palco del teatro che occupava l’ala ricreativa dell’edificio, indossando i panni che mi si attagliavano ottimamente, quelli del Cavaliere dalla Triste Figura. Potevo allora, in quel ruolo, intavolare discorsi e moniti sui nocumenti che alcuni uomini senza compassione e coraggio arrecavano all’edificio. – Vedi caro Sancho, l’uomo vile fa sempre la voce grossa, per mascherare la sua cagionevolezza di carattere, e cerca di sopraffare la mitezza di spirito di coloro che non possono difendere la loro dignità. L’uomo vile addossa al nemico illusorio tutte le nefandezze e le ubbie della sfortuna che gli tocca, anche se lui vive negli agi e le damigelle lo concupiscono. In questa mollezza infida, l’uomo vile escogita i tormenti da infliggere agli innocenti. Ma il mio forte braccio, chiamato in questo luogo per mettervi ordine e magnificarne il progresso necessario alla quiete del vivere, non tremerà di fronte al menzognero agire di costui. – Indi spaccavo la mia durlindana immaginaria sulle schiene dei felloni. Gli applausi scrosciavano e alcuni valenti Domestici mi conducevano poi nel mio camerino, permettendomi con alcuni intrugli miracolosi di riprendere le forze, necessarie il giorno seguente al combattimento contro la viltà dei menzogneri e dei pavidi, messi malefici della Sfortuna.
Ma il destino non sta a guardare e agì. Uno strano caso mi portò davvero sfortuna. Era un giorno di tempesta, le inferriate delle finestre filtravano allucinazioni di lampi, le fondamenta vibravano come se i tuoni nascessero nel sottosuolo. Tutti i pazienti, anche quelli legati ai lettini, erano in preda al terrore. Uno, che già tenevo d’occhio da tempo per le sue strane manie che scatenavano contrattempi che non descriverò, si alzò dalla sua sedia rovesciando il tavolo dei medicamenti, e afferrò un ombrello. Mentre rombò un boato più forte del cozzare di mille locomotive, lo aprì ridendo nel suo modo beffardo. Un gesto intollerabile, che avrebbe scatenato tutte le cateratte degli inferi. Mi gettai su di lui strappandogli l’ombrello di mano, io sapevo che la Sfortuna non poteva nulla se l’oggetto scatenante fosse stato disinnescato nei primi cinque secondi. Cademmo a terra e la tempesta cessò di colpo. Ma lui morì, si era rotto la testa sul termosifone. Mi punirono. Fui rinchiuso nella stanza dei materassi, isolato da tutti. Per anni entrarono solo due Domestici per le punture e il cibo, che spesso rifiutavo perché di infima qualità. Fui degradato, in quell’esilio; privato dei sogni e delle mansioni. Il Ministero passò in mani a me ignote. Il tempo passò così lentamente che quando uscii dalla stanza dei materassi non riconobbi più nessuno.
Stamane, in questo giorno che mai mi aspettavo potesse giungere, mi hanno fatto visita gli Ispettori e con soddisfazione hanno sancito: – Lei è premiato per la sua costante e fedele adesione al bene dell’edificio in qualità di Ministro della Sfortuna. È tutto a posto. Ora, è tempo, si goda la meritata pensione. Rimarrà comunque qui, con tutti gli agi che la sua posizione, benché decaduta, merita. Senza doversi più indaffarare nelle gravose attribuzioni necessarie a quel bene comune, che lei ha servito con coscienza fino a quando ha potuto. –
– Signori! Non è accettabile dalla mia lucida ragione e dal mio cuore impavido. Con tutto il lavoro ancora da svolgere, poiché la vedo l’inettitudine di chi mi ha sostituito e non sono pazzo, non posso accogliere questa ossequiosa, ma inopportuna, proposta. – Ho obbiettato con una fermezza d’animo tale da lasciarli senza fiato. Rassegnati alla sconfitta da tali parole di responsabilità e a causa della valenza retorica con cui le vestii, hanno allora chiamato i due Domestici che con la forza bruta mi hanno portato fuori dall’edificio, condotto lungo il cortile, spalancato il cancello e chiuso fuori.
Fuori, seppur spaesato, riconosco subito il mondo da cui mancavo da anni. Quanti? Una campagna brulla e diaccia, in niente cambiata. La stessa tetraggine la ammanta come in quel lontano giorno in cui mi condussero nell’edificio. L’odore stagnante di terra grassa serra la gola. Ci sono nuvole nere e basse, ma sulla linea dell’orizzonte si delinea una lingua rosseggiante. Scorgo immediati segni scaramantici. Il mio occhio è allenato. E come non vedere le due sole figure in quella desolazione. Mi aspetta – come sapesse che mi avrebbero cacciato senza riconoscenza – una donna. Mi guarda con una malignità che solo la vecchiaia esalta. – Eccoci. Avevamo promesso. – Rosa Capone. Il sangue mi si ghiaccia. Al suo fianco, un enorme gatto nero con occhi satanici. Avanza verso di me.
Il campionato del ’25 cominciò un giorno di fine luglio e si sarebbe allungato fino a maggio del ’26. Cominciò che mi toccava varcare il Ceneri, l’altissima montagna che separa il Nord dal Sud. Anche se partivo dal versante piemontese, sarei finito in una specie di Lombardia. Poi non è che dovessi proprio salirci su quella montagna, dato che ci passavo sotto in treno. Ma ne avvertivo il peso dei milioni di metri cubi di terra e sassi, oltre a quello dell’impegno. Mentre ero lì sotto, in quel buco, mi accorsi che nel sedile accanto sedeva Franz Kafka, che non è un centravanti. – L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo: problematici sono soltanto il conducente, i compagni di viaggio e la strada. – disse serio. Forse portava sfiga? Non vedevo l’ora che il treno fermasse a Lugano e temevo che nel frattempo, come compagno di viaggio, il giovane Franz potesse tirar fuori qualche accusa che mi avrebbe portato a un processo ignoto. Ma andò bene, il treno non deragliò e Kafka sparì tra la folla appena sceso. Sul bus mi si avvicinò Osvaldo Soriano. – Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni. – Il fare sornione mi fece sorridere, ma aveva ragione e ne avrei avuto la riprova da lì a qualche ora quando la partita si svolse in un clima da primo giorno e tutti si erano dimenticati le cose da fare e ne facevano altre in modo piuttosto sgangherato, ma credendo di agguantare la gloria. Mentre tornavo, ancora nella galleria schiacciata sotto la terra, venni ammonito da Friedrich Dürrenmatt, con il suo solito fare disincantato. – Ogni tentativo del singolo di risolvere per conto suo ciò che riguarda tutti è destinato a fallire. – Giudice e boia! Scesi dal treno bramando una birra. Come singolo era andata bene.
Alla sera sono contento del muretto che ho tirato su in giornata e così, dopo un sonno popolato di oggetti in volo che non ricordo, risalgo con il sacco degli attrezzi. Ma il muro è crollato a terra. Della calcina che lo teneva in piedi non c’è traccia. Alcuni corvi osservano da terra. Gli alberi hanno perso le fronde e restano in piedi come ossi grigi. Di questo passo, il monastero non verrà mai su. Ma lo vogliono e allora ricomincio, pietra su pietra e calcina fresca. Forse era meglio tracciare la mulattiera prima di cominciare quest’opera voluta dalla Diocesi. Noi del paese avevamo molti dubbi: troppo scoscesa e franosa quella parte di montagna. Perfino il Romanin, un macigno a forma aguzza, sta in bilico, forse per misericordia. Ma loro, prelati e architetti, lo vogliono. Forse per insegnarci a credere in dio. Gli è che il muro è a terra, smembrato come in origine, i sassi tornati a terra, incassati tra loro come a impedirne lo spostamento. Sembrano fratelli che stanno bene solo alla rinfusa. Ricomincio e passa la giornata. La sera arriva tardi e così sono riuscito a mettere in piedi il muretto, con qualche corso in più. Scendo a casa, arrostisco la polenta di ieri con un po’ di grasso, un bicchiere di vino con acqua. Mi siedo sulla soglia, passa el Brusu. – Com l’é nacia? – A ma tocò rifèe tut da bel neu. – Al saseve sgià. – Aloro chel te domanda a fann. – Iscì. Se ne va, torno dentro, mi metto a letto. Il mattino ricordo tracce di sogno: cazzuole che volano via dal secchio, rocce arcuate che incombono, io che scappo mentre sorvolano uccelli neri con le prede nei rostri. Non mi piace. Risalgo. Il muro non c’è più. I corvi osservano. Gli scheletri sono ovunque. Rifaccio da capo. Ridiscendo a sera. Per sette giorni faccio e rifaccio e tutto si erge per poi crollare nella notte. La calcina svanisce. El brusu pone sempre le stesse domande, e io offro uguali risposte. Ma la sera del settimo giorno aggiungo: – A vaghi su più. – L’ere be’ oro – risponde lui accompagnando con un ghigno il roteare della mano destra. Arrivano dalla città, salgono. Architetti e prelati mi danno dell’incapace, uno dice che rubo i soldi della chiesa. Ne ho abbastanza, scendo, vado a casa, mi siedo sulla soglia e mastico un po’ di tabacco. Magari passa il Brusu. Infatti passa. – Pup di fochi, scapa. – Parché? – U vegn sgiù. La notte è la fine del mondo. La montagna sembra franare tutta insieme e le scintille delle pietre che cozzano tra loro accendono il cielo. I denti sembrano cadere per le vibrazioni. Il sangue coagula. Il respiro è andato a rintanarsi nelle viscere della terra. Quando fa giorno, ai miei piedi che non si sono potuti muovere, c’è il Romanin, più grande di come me lo ricordavo. Alzo lo sguardo e dall’altra parte della valle, a mezza montagna, un nugolo di corvi vola in cerchio sopra una costruzione che il giorno prima non c’era. Un monastero. – Dio non esiste – dice il Brusu, apparso all’improvviso e appoggiato al macigno come se ne fosse il proprietario. – Di certo non esiste per noi, meglio così.
A San Pedro l’acqua è avvelenata, cioè: contiene arsenico e ci si deve abituare con alcune settimane di mal di testa. Il che, con la poca voglia di sacrificio che anima tutti e chi dice di no mente, ci portò a virare sulla birra, okay, poteva andare peggio. Non era partita col piede giusto l’avventura, la Frilly non sopportava le galline tra i piedi, nella casa della Signora Nora, che la famigerata Routard non aveva segnalato. A me non davano fastidio, e mi piaceva pure che arrivassero a turni stretti parenti o amici della Signora Nora. Le avevamo detto che eravamo svizzeri, e lei allora tutti qua, venite, che sono ricchi, anche questi due che non sembra, e qualcosa resterà be’ attaccato, hanno pensato. Solo che la Frilly era studentessa e io disoccupato, la cioccolata non ci piaceva, le banche non ci spillavano crediti e gli orologi a cucù non li avevamo portati per la poca praticità. Dopo un po’, anche le galline avevano compreso, dall’alto del loro proverbiale acume segnalato dallo sguardo vispo e di traverso, anche le galline avevano compreso che nada. Cambiammo pensione, ne trovammo una con l’amaca nel patio. Mentre sono lì a oziare in dondolìo e con merito, mi fregarono l’obiettivo della Minolta, che credo abbiano poi attaccato a un bastone per qualche rito dei loro. Naturalmente, la Frilly mi insaccò subito, non per l’obiettivo vero e analogico, ma per quello spirituale che per lei era mancato, se s’andava avanti così. – Siamo dall’altra parte del mondo con tutto da vedere, e tu dormi! – – Eh bon… – Poi mi alzai lo stesso perché so che quando fa così marca brutto ancora adesso. La sera scese alle sei, la notte alle sei e mezza. Sono abituato ai tramonti d’agosto sui monti che durano fino alle nove e rompono anche il cazzo, a volte. Lì, nel deserto di Atacama, alle otto l’aria era già precipitata in apnea a meno dieci e i capelli bagnati dalla doccia gelavano (viene da lì il termine gel?). La Frilly piangeva di rabbia e di freddo, ma trovammo un cortile con il falò e riuscii a farla mangiare, che sennò anche il clima lo faceva diventare una mia cospirazione contro di lei. Il giorno dopo nella Plaza, e nel sole che rimontava placido ai venticinque, erano state disposte, da mani beffarde, delle teche. Con i ragni più velenosi delle Ande, più altri insetti repellenti e tutti vivi, roba che dopo due passi sei stecchito oppure ci metti due ore ma paralizzato. La Frilly aveva preso il colore della sabbia, a me piacevano. Ecco. Dovetti caricare sulle mie potenti spalle anche l’evoluzione maligna dei ragni e delle serpi, che lei imputò a me per il gusto boomer di farla piangere. Zio cane. Ispezioni dei cuscini e dell’acqua del cesso, avanscoperte con bastoni rivoltando sassi roventi, sensazioni di morte da moscerini, supposti nidi nei tacos. Un po’ ci ridevo su con gli allegri atacameños, pensando di sdrammatizzare, ma poi finivo alle due di notte di guardia alla porta con un ammazzamosche di cartone, mentre lei incubava sofferenze immaginarie ma molto solide nel rivoltarle contro di me. Penso a queste cose per non lamentarmi oggi, che fa caldo e mi annoio.
Lassù non c’è niente, non ci andare. È vero, hai ragione, cosa può crescere tra i sassi? Nessuno vi sale, troppa neve e troppo sole. Troppo vento. Lo vedi? Neanche un sentiero. Chi ci è andato ed è tornato, perché qualcuno non è tornato ma forse non ci è andato davvero e ha solo fatto altre strade piane per sparire dalla nostra vista, chi è tornato aveva le caviglie scorticate e gli occhi sbarrati. Dicono, io non conosco nessuno, nessuno che nemmeno ne parli un poco. Eppure. Eppure sono certo che l’amore e la morte si celino o si mostrino anche lassù, e io voglio capire. Lo so, ho imparato: l’amore e la morte non si vedono, ti entrano dentro e quando te ne accorgi sei già prigioniero. Non ci andare sul Monte. Ma certo invece, che ci salgo. E dai primi declivi, dove la vite tiene ancora duro, passo a una pineta fresca, che si farà rada quasi senza darne segno, come i capelli sul cranio a una certa età e a un certo dolore. Ma la pelle del Monte non è liscia, è aguzza di pietre chiare. Da lontano sembrano in pace, da vicino mordono. Con un po’ di attenzione e scarpe buone si riescono a schivare. Salgo con ampie curve come quando si affrontano le asperità dell’anima, andare su diritto è troppo, andare dritto al punto è una hybris. Fa caldo, forse siamo a luglio, non so, e la mia mamma mi ricordo che diceva sempre di non stare sotto la stecca. Non credo di essere il primo, penso. Ci sono segni quasi imperscrutabili di orme andate, l’aria raccoglie a folate degli strani sospiri che a starli a sentire con pazienza potrebbero volgere in parole di amanti. Il tuo nome antico è Ventur, me l’ha spiegato la nonna dell’Alvernia che ti vedeva da lontano. Sei indissolubile al vento che ti trapassa e ti sorvola e scaraventa al mare tutto ciò che trova. E intanto comincia a scottare di brutto, mi pare di avere la faccia di cartapesta. Ho portato acqua e le anfetamine che ci davano in guerra. Conservo una stilla sensuale nel caso mi ritrovassi affranto. Sono salito da nord, immaginando qualche poco d’ombra, forse da sud sentiero ce n’è, forse non siamo soli, Monte. No, neanche da sud, sarebbe anche peggio e solo i pazzi salirebbero da laggiù. Non riesco a capire perché tu sia disabitato ed eluso, un reietto malinconico e temibile. Chi t’ha posato e abbandonato in mezzo al vento di questa terra piatta? Vederti da lontano è una repulsione? O è un anatema per tutti, per te e per noi? Cosa vuoi dirmi, tu, così grosso senza opulenza, così sgombro e oscuro? Forse è il timore, Monte, è l’ignoto a tenerci divisi. Potremmo amarci, impavidi. Potremmo morire con una specie di gioia aliena. Ma ignavo ai tuoi piedi non lo scoprirò e tu non saprai di me. Per questo salgo su di te, come su una cavalcatura che va verso una gloria o una sconfitta. Deposti sulla terra con la stupidità del caso, siamo entrambi disadorni e inospitali. E allora, forza.