L’efficacia della brevitas è tale che può equivalere per il lettore a un ‘pugno nello stomaco’, per la capacità di ‘svelare’ letture inaspettate, inconsuete, potenzialmente trasgressive, raramente rassicuranti.
Leggendo Giorgio Genetelli, Ingombranti. Una raccolta, temposospeso 2025
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Tra le varie branchie dell’Università della Strada c’è la Ginnastica Esibizionista. Consiste nell’osservare dal vivo qualcuno che fa evoluzioni ginniche per “farsi vedere” e poi provare di persona a ripetere l’esecuzione. Si può esercitare in una qualsiasi delle centomilamilioni di sedi autorizzate.
Ieri, per esempio, un potenziale neolaureato ha offerto la sua prestazione davanti alla commissione d’esame, composta da due donne col bianchino in mano e da una bambina di sei anni compiuti da poco. Lo studente, leggermente fuori corso per la Ginnastica ma smaliziato da lunghi anni da Esibizionista (calcio, chitarra, corteggiamenti, sbronze, consiglinonrichiesti, prediche – tutte facoltà frequentate assiduamente e con tanto di laurea e festeggiamenti in capannoni, nightclub e varie), ebbene, l’Esibizionista ha seguito attentamente le evoluzioni della bambina sul prato prospicente la giuria, che dopo alcune spaccate ha offerto una perfetta esecuzione della ruota, con tanto di applausi delle due donne a bianchino poggiato.
La sapevo fare anch’io!
Ha annunciato l’Esibizionista futuro Ginnico.
È il momento dell’esame, allora. L’Esibizionista, in tenuta estiva che metteva a nudo due gambe bianchicce ma ancora dignitose, è sceso nel prato, si è fermato al centro del praticabile e ha invitato la bambina a farsi da parte che ghe pensi mì.
Con un certo sconcerto, è sceso il silenzio.
L’Esibizionista ha alzato le braccia, allargato le gambe, cercato la postura laterale e le migliori condizioni del vento e come nei grandi momenti delle conquiste umane ha lanciato le mani sulla soffice erba di giugno. I piedi sono saliti verso l’azzurro del cielo, come aironi nella corrente ascensionale d’aria tiepida, e dal punto più alto sono ricaduti al suolo trascinando l’Esibizionista verso la chiusura della figura. E come in tutti i momenti di conquista, quando ci sono frasi immortali che i posteri si tramanderanno per secoli, subito dopo aver ripreso contatto con la realtà, l’Esibizionista ha esclamato:
Mi sono strappato.
gene
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Com’è bello Sonlerto a giugno
a due passi dall’estate,
il mattino fresco e sereno
quando il sole ancora aspetta
e la montagna giaceLa Fracassi Race scatta
alle otto della mañana
e meraviglia con i rombi
e odori di benzina e olio
come autodromo silvanoCom’è bello Sonlerto a giugno:
i fragori dicono che sì,
senza l’uomo sarebbe foresta
di terribili silenzi oscuri,
strappati solo da cinguettii
e ululati, e bramiti, e stormireIl Soffiatore alza steli residui
di fieno intriso a rugiada
Il Tosaerba magnificato
trascina spettri tra l’erbetta d’accademiaE alle nove è già caffè e notizie
oltre la flamme rouge,
tra sogni indistinti,
e toccherà al Generatore
occuparsi di toiletteSporadiche lame o scuri
terranno indietro piante
ma nel vago pomeriggio
all’arma biancaIl bosco domo,
il prato parco,
i fiori in umore
le api domestiche,
i cani antropici
Tutto è per voiCom’è bello Sonlerto a giugno
a due passi dall’estate
quando il sole sorge
sull’operosità feriale
già compiuta e giusta
e imperversa la Pétanquegene
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Il ragazzino scende di sella al volo come aveva visto fare al circo dall’acrobata vestito di bianco, che rideva e piangeva. Davanti lui fremono gli ultimi arbusti che annunciano il mare. Poggia la bici a terra e dalla sabbia a pulviscolo si ritrova in pochi passi sulla compattezza quasi molleggiata della battigia che gli rinfresca i piedi nudi. L’acqua va e viene con dolcezza, come se gli dicesse ciao, che bello averti qui. L’orizzonte si fonde con il cielo, le gradazioni d’azzurro arrivano al sole già alto. Lo sciabordio profuma di sale e gli ricorda la pasta della Mam, chissà dove sarà ora la Mam? Lo penserà ancora? Darà ancora il bacio sulla bocca al Pa’ prima che vada nei campi? Rimboccherà ancora le coperte alla piccola Doni? Avrà ritrovato Gisella e la pace?
L’aria mediterranea gli ripulisce le narici, anche se, ragazzino com’è, non sa che quello è il “mare di mezzo”, e va bene così, la geografia è sparita e bisognerà rifarla con altri nomi. Forse toccherà a lui, nessun altro essere umano è in vista. Qualche legno scorticato biancheggia arenato. Il ragazzino sente una gioia sconosciuta per quel vuoto pacato.
Cammina, raccoglie una piccola conchiglia che non ha nemmeno bisogno di essere appoggiata all’orecchio per sentire il suono del mare perché il mare è lì e gli parla.
“An n’ho vidù da rop”. Ne ho viste di cose. La voce del mare è velata di una leggera malinconia, ma non è dolente. Snocciola nomi che al ragazzino sono sconosciuti, ma qualcosa di indefinito gli smuovono al centro della fronte: Alessandro, Afrodite, Odisseo, Annibale, Michela, Panagulis, Giorgia, Troisi.
A passettini, lascia indietro orme leggere che il riflusso cancella con cura, come se rifare il mondo cominciasse da lì; raggiunge il punto lontano in cui ha scorto un brillare che non gli pareva quello specchiato dall’acqua nel cielo. Cammina, allora, ma senza fretta, sente che pericoli non ce ne saranno, che l’acciaio e il fuoco sono tornati nel mistero cupo dal quale erano usciti per travolgere e incenerire, implacabili.
Raggiunge il brillio. È una bottiglia di vetro chiaro che sembra prendere il fresco sulla sabbia. La raccoglie. Dentro vede che c’è un foglio arrotolato e allora toglie il tappo di sughero, capovolge la bottiglia, il foglio si sporge dal collo. Il ragazzino si sfrega la sabbia dalle mani, lo estrae e poi ne slega il delicato nastrino azzurro che è come l’ultima chiave prima di un qualcosa che non si può sapere.
Il ragazzino, ora è seduto, spiega il foglio e le parole gli si svelano:
“A te. Ti aspettavamo alla fine dei millenni, quando anche l’ultima stilla d’odio sarebbe stata risucchiata nel cosmo. Sei qui, adesso. Possiamo ricominciare. Benvenuto.”
Il ragazzino sposta lo sguardo a sinistra, dove forse è levante. A piccoli passi, ancora lontanissima, riconosce una figura di ragazzina, lo sa che è una ragazzina anche se è solo una virgola nella luce immensa. Arriverà a lui, ma senza fretta e lui la aspetta in piedi, non sa se ridere o piangere, come l’acrobata. Ma c’è tempo, la giornata è giovane.gene
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Basta solo inclinare un po’ a destra e a sinistra. Non è il volante di una macchina, che il ragazzino non ha mai guidato e quelle che si vedono sono lattine carbonizzate o schiacciate. È il manubrio, è una bici. Un po’ grande per lui, dalla stanghetta non tocca terra, fa niente e ci balza in sella con la rincorsa, prende velocità e, una piega di qua e poi di là, sente il ritmo inebriante del respiro sicuro del sonno. Ma è sveglio e fila via curvando tra detriti e relitti. Saluta con la mano, a volte con due, per vedere come si sta, anche se non c’è nessuno. Oltre gli scheletri delle case, la polvere del deserto è indurita e il grip è perfetto. Il deserto non è un vero deserto, lo è diventato dopo; i cactus non sono i cactus dei libri, sono ulivi o cedri stecchiti come matite nel sole. La gioia è un dito che sfiora con delicatezza la gola e fa prudere la pelle.
A faghi ‘l giir da ca’ e a ghé più gnisun, canta il ragazzino, con le ruote così veloci che sembrano alzarsi dal suolo ed è un piccolo volo di un centimetro. Non è un paese per montagne, questo, solo colline spelacchiate, con vene inaridite, ma il vento nei capelli, oh sì, è antico, viene dai millenni e ci sarà ancora e per sempre. Carrarmati sventrati sembrano ricambiare i saluti con gli obici in alto, braccia che si arrendono. Femori e sterni biancheggiano, una piega di qua e una di là e oplà, si passa. È divertente l’ondeggiare nel mondo che hai.
Si sentono soltanto il woooosh dell’aria e lo ziiiiiiiiiii delle gomme; il profumo della polvere allieta, anche mischiato alla selce sfregata che al ragazzino ricorda il papà quando stavano fuori a far su il muro del giardino.
Altri ossi, altre seppie, ferraglie e calcine. Il Nuovo Mondo è bellissimo, la bici un gioiello, non deve neanche frenare. Chissà se è ancora primavera o già estate? Tutto è pulito, come se avesse piovuto un’ora fa, ma non ha piovuto, non tuona, non lampeggia. Non tuona e non lampeggia più. Brilla solo il cromo dei parafanghi, allungato a velocità come un raggio d’argento nell’oro della sabbia, o nel blu del cielo quando la bici balza oltre le trincee di ossi e di seppie.
Piega, pedala, balza, saluta il niente e il nessuno. La libertà.gene
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Due giorni in Onsernone, un po’ a piedi e un po’ a cavallo. A cavallo di montagnette infide, intendo. Questa cosa del Nono taglian che hanno rifatto svizzero con attinenza di Russo l’ho già detta, ma la ripeto. Ci dev’essere un richiamo, ma non lo so, le orecchie non odono e per quanto riguarda il cuore ha già gabole di suo, che come mi sveglio attacca a battere sui soliti tasti e non posso nemmeno mandarlo via. Fatto sta che: prima al Centro Sociale, di martedì; poi verso il Corte Nuovo di mercoledì. Se con i vecchi è un fare i conti con le relazioni e la spensieratezza, con le marce prealpine è un’opera di convincimento, per resistere alla noia e alla voglia di bestemmiare che sta sempre in canna.
Salendo da Comino – è la cosa del mercoledì – è subito un esercito di faggi, che proteggono dal sole ma sembrano anche dire: Torleri, non azzardarti a reclamare. Sono contento di stare con la Maddalena, che invece ha una pace tutta sua. Incontri, zero. A meno di inventarli e così antropizzo sassi e radici, quelle muscolose e glabre dei faggi. Sono fuori forma, ma tengo duro perché in cima all’erta vedo la luce del cielo. Le conosco le montagne, leggo le loro penombre, tra l’odore della fine del bosco e la consistenza del terriccio. So calcolare quanta forza mettere per salire cinquanta metri senza rompermi le balle e le ginocchia.
In cima? Si vede il Corte Nuovo, circa duecento metri in linea d’aria orizzontale. È là che dobbiamo andare, dice la Maddalena. E io: cosa ci vorrà? Solo che il sentiero ridiscende seguendo uno sbricco impilato tra le Centovalli e l’Onsernone. Giù per un centinaio di metri, e poi su ancora, verso quello che la menzognera cartina definisce con ironia: Scimin.
Non è una gita, è la Liegi!
Su al Scimin, con il Corte Nuovo che lo vedi là e non sembra essersi mosso di un centimetro, e ancora giù. E poi di lato, tagliando un crepaccio dal quale si scorge, indovinate? Russo, sì. E penso al Nono e alla fortuna di essere sempre stato a Claro con il severo ma prevedibile Visagno, salita e salita. Mica come qua che sembra di essere alla chiesa di Wassen, che la vedi centomila volte dal treno mentre gli giri intorno.
La Maddalena intanto è rimasta indietro, non perché fa fatica, ma perché non vuole più sentirmi rognare. E dal crepaccio, su ancora una volta. E ci siamo, dioppo’? Beh, sì. Il Corte Nuovo è bello come Bastogne, prendo una sdraio, vado all’ombra, tiro fuori mezzo chilo di mortazza, la birra, fumo, non faccio più niente. Per tre ore torno ad amare la montagna, questa montagna prealpina con vista sui mondi. Cerco il Basodino, perfino la Cima dell’Uomo, naturalmente non so niente. Ma siamo proprio contenti. Io penso che lì facevano fatica anche le capre e mi assolvo.
La discesa, cioè, definirla solo discesa è una mortificazione all’impegno, è una tragedia e per non morire di tedio faccio i conti del dislivello traditore: sembravano quattrocento metri, sono minimo minimo triplicati. E l’alcol del martedì, dopo la festicciola coi vecchi e il lasciarsi andare all’osteria con i soci, evapora inservibile e tossico.
Sono un Eroe!
Quando comincio a vedere i prati di Comino – mi sembra Liegi di nuovo, stesso effetto traveggola del Corte Nuovo – anelo all’arrivo, dove c’è una chiesetta e lì l’Aconcagua sarà finita. Lo dico alla Maddalena: Non è mi è mai capitato di desiderare la vista di un chiesa. Toh!
Il Nono sì, ci andava in chiesa, ma mica ha fatto la fatica che ho fatto io.
Ho scritto questa cosa per tenerla ben bene a mente, per evitare tentennamenti nel caso orripilante che mi venga proposta ancora una volta, quando sarò ormai immemore di tutto quanto. Se proprio devo andare da qualche parte, torno al Centro Sociale con la chitarra e la testa piena di sciocchezze.gene
Postilla.
Il Max dice che spesso su questo blog sono cupo. Ciola
