
Due giorni in Onsernone, un po’ a piedi e un po’ a cavallo. A cavallo di montagnette infide, intendo. Questa cosa del Nono taglian che hanno rifatto svizzero con attinenza di Russo l’ho già detta, ma la ripeto. Ci dev’essere un richiamo, ma non lo so, le orecchie non odono e per quanto riguarda il cuore ha già gabole di suo, che come mi sveglio attacca a battere sui soliti tasti e non posso nemmeno mandarlo via. Fatto sta che: prima al Centro Sociale, di martedì; poi verso il Corte Nuovo di mercoledì. Se con i vecchi è un fare i conti con le relazioni e la spensieratezza, con le marce prealpine è un’opera di convincimento, per resistere alla noia e alla voglia di bestemmiare che sta sempre in canna.
Salendo da Comino – è la cosa del mercoledì – è subito un esercito di faggi, che proteggono dal sole ma sembrano anche dire: Torleri, non azzardarti a reclamare. Sono contento di stare con la Maddalena, che invece ha una pace tutta sua. Incontri, zero. A meno di inventarli e così antropizzo sassi e radici, quelle muscolose e glabre dei faggi. Sono fuori forma, ma tengo duro perché in cima all’erta vedo la luce del cielo. Le conosco le montagne, leggo le loro penombre, tra l’odore della fine del bosco e la consistenza del terriccio. So calcolare quanta forza mettere per salire cinquanta metri senza rompermi le balle e le ginocchia.
In cima? Si vede il Corte Nuovo, circa duecento metri in linea d’aria orizzontale. È là che dobbiamo andare, dice la Maddalena. E io: cosa ci vorrà? Solo che il sentiero ridiscende seguendo uno sbricco impilato tra le Centovalli e l’Onsernone. Giù per un centinaio di metri, e poi su ancora, verso quello che la menzognera cartina definisce con ironia: Scimin.
Non è una gita, è la Liegi!
Su al Scimin, con il Corte Nuovo che lo vedi là e non sembra essersi mosso di un centimetro, e ancora giù. E poi di lato, tagliando un crepaccio dal quale si scorge, indovinate? Russo, sì. E penso al Nono e alla fortuna di essere sempre stato a Claro con il severo ma prevedibile Visagno, salita e salita. Mica come qua che sembra di essere alla chiesa di Wassen, che la vedi centomila volte dal treno mentre gli giri intorno.
La Maddalena intanto è rimasta indietro, non perché fa fatica, ma perché non vuole più sentirmi rognare. E dal crepaccio, su ancora una volta. E ci siamo, dioppo’? Beh, sì. Il Corte Nuovo è bello come Bastogne, prendo una sdraio, vado all’ombra, tiro fuori mezzo chilo di mortazza, la birra, fumo, non faccio più niente. Per tre ore torno ad amare la montagna, questa montagna prealpina con vista sui mondi. Cerco il Basodino, perfino la Cima dell’Uomo, naturalmente non so niente. Ma siamo proprio contenti. Io penso che lì facevano fatica anche le capre e mi assolvo.
La discesa, cioè, definirla solo discesa è una mortificazione all’impegno, è una tragedia e per non morire di tedio faccio i conti del dislivello traditore: sembravano quattrocento metri, sono minimo minimo triplicati. E l’alcol del martedì, dopo la festicciola coi vecchi e il lasciarsi andare all’osteria con i soci, evapora inservibile e tossico.
Sono un Eroe!
Quando comincio a vedere i prati di Comino – mi sembra Liegi di nuovo, stesso effetto traveggola del Corte Nuovo – anelo all’arrivo, dove c’è una chiesetta e lì l’Aconcagua sarà finita. Lo dico alla Maddalena: Non è mi è mai capitato di desiderare la vista di un chiesa. Toh!
Il Nono sì, ci andava in chiesa, ma mica ha fatto la fatica che ho fatto io.
Ho scritto questa cosa per tenerla ben bene a mente, per evitare tentennamenti nel caso orripilante che mi venga proposta ancora una volta, quando sarò ormai immemore di tutto quanto. Se proprio devo andare da qualche parte, torno al Centro Sociale con la chitarra e la testa piena di sciocchezze.
gene
Postilla.
Il Max dice che spesso su questo blog sono cupo. Ciola





