tuttologia in direzione contraria

Fuorilegge

Mi ricordo ancora quando giravo per strada con il cappello e quanto mi piacesse sentire il uomo con cappelloploc ploc della pioggia sulla tesa, con le gocce a rivoli e una dopo l’altra cadevano a quattro dita dal viso. Lo tenevo a volte anche per ripararmi dal sole, e così facevano altri uomini e altre donne, senza che nessuno le obbligasse a coprire lo splendore dei capelli, ma così, per diletto. Lo toglievo nella discesa verso la piazza, quando la pedalata si faceva intensa e il gusto dell’aria accarezzava il capo come vino al palato. L’ho lanciato in aria per un gol o un matrimonio, l’ho tenuto tra le mani a funerali e dentro uffici. Non ho mai pregato, ma a tavola lo levavo, appoggiandolo da qualche parte, però in modo da poterlo sempre vedere, anche di sbieco.

Ne persi molti tra bar e gite e mi piace pensare che abbiano girato poi il mondo su altre teste, preferibilmente non di cazzo, anche se non poteva essere altro che una speranza. Da piccolo ero meno assiduo, a volte valeva anche la berretta col fiocco in caso di neve, ma appena spuntava la signorina primavera tornavo da lui, che poteva essere giallo con la scritta Parisienne o rosso con quella del Campari, roba che lanciavano le macchine al seguito del Tour. Adolescente, passai al basco, perché il Che era apparso nella mia vita come un amico personale. Sbarbatello, funzionava a metà, ma era bello quel panno che poggiava sulla testa come la mano della mamma quando avevo la febbre ed ero felice di schivare la scuola.

Attorno ai vent’anni mi misero tra le mani quello militare, anzi, quelli militari: per la prima volta mi ritrovai a non amarlo. Ma appena liberato da quel furto di giorni preziosi che è l’esercito, non tagliai i capelli per un anno e mi rimirai a vederli spuntare da sotto un improbabile bombetta all’inglese. Con i preziosi baffetti da giovanotto parevo Charlot, meno inquietante di quella figura che vedevo nei film mentre mangiava scarpe o guardava intenso in camera come se dicesse: farò di voi ciò che voglio. Non mi piaceva Chaplin e quindi passai a una serie colorata di berrette andine, quelle che coprono anche le orecchie e che se le aveste indossate per un paio di giornate estive capireste certo cosa voglia dire prudere.

A un certo punto mi trovai di fronte a una scelta: o mettevo a posto la testa o mettevo a posto il copricapo. Trovai a Zurigo, al festival country, un capolavoro di cappello, di quelli che si vedono nei film western in testa ai fuligginosi conducenti di locomotive. Con quel trofeo in testa, potei dedicarmi ad essere anormale senza più un solo cruccio.

È tutto passato, ma non sono triste…

Oggi che sono uscito in strada con il mio bel cappello da pioggia, pregustando il ploc ploc, mi ha fermato un gendarme che mi ha comunicato senza nemmeno guardarmi in faccia “dell’entrata in vigore della nuova legge che vieta il portare copricapi sulla testa”.

Quando gli ho chiesto se valeva anche per lui, visto che sfoggiava quello d’ordinanza (che io non metterei nemmeno al mio funerale), mi ha risposto che lui è nell’esercizio delle sue funzioni e sicché dunque le battute di spirito è meglio evitarle.

Mentre scappavo nel temporale, tutto sghembo, con una mano sul cappello per non farlo volar via, ho sentito un tuono. Ma non era un tuono. Il colpo di pistola mi ha colpito da qualche parte nella schiena e sono steso qui con le gocce che mi fanno ploc ploc sul petto e sulla faccia. Il mio cappello è al sicuro, sotto la mia mano, bene.

Sono contento di aver avuto il tempo di vivere la vita mia e dei miei cappelli prima che diventassero fuorilegge loro e morto io. Poteva andare peggio.

 

gene

 

Postilla

Quando l’uomo col cappello incontra l’uomo con la pistola, l’uomo col cappello è un uomo morto.


Una replica a “Fuorilegge”

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