
Si sono sempre incrociate, a volte sovrapposte, queste due passioni, ma quando smisi con il calcio a metà tempo di una sera senza fiato del duemilaventidue il canto è andato avanti da solo. Mi piace cantare, lo so che pare futile, ma tra il futile e l’inutile prendo tutto quanto. Non faccio questo e quello, non costruisco niente, evito di possedere, logoro i vestiti, spreco frasi, butto via formulari e quei quattro soldi senza remissione, ecco. Stamattina mi sono alzato cantando col pensiero, ripassando le parole che canterò stasera a Bellinzona, città che mi mette sempre malinconia per i tanti affetti e per il pensiero di mia figlia che ora sta a Berlino e che me la ricorda ogni volta che vedo un postale giallo che arriva da Preonzo, ormai quartiere per tutti ma non per me che vorrei rigare la carta d’identità che non lo cita più. Ogni canzone parla di lì, del mio paese, in inglese, in italiano, in dialetto, il resto sono solo colonie più o meno amate.
Autoreferenziale ed egocentrico come sono, ho la tolla di scrivere queste cose qua senza il minimo pudore. Non mi sfiora nemmeno il senso del ridicolo e so di cantare peggio del Baracheta ma meglio dei Maneskin; porto la chitarra elettrica da pochi soldi a tracolla che fa il suo effetto soprattutto quando non la suono, lasciando agli altri il peso del talento. Sto pensando a come vestirmi come se nell’armadio in cantina avessi una scelta principesca, ma se potessi ripescare la blusa da falegname sporca di colla e segatura metterei quella (ho pensato anche a una tuta da sci anni Ottanta, ma è andata perduta). All’ultimo riordinerò il classificatore delle canzoni, nella borsa del Denner ho le armoniche a bocca a cui attingerò come un Dylan meno convincente.
È possibile che non ascolterà nessuno, come del resto quasi nessuno mi legge, ma boh, magari tanto non cambia niente e a contare è ciò che sento io mentre canto o scrivo. Conta anche che possa sentire i suoni dei compagni, per non sopraffarli, per accordarmi a loro fino a una compattezza collettiva che spesso mi fa lacrimare. Il nostro gruppo è nato quasi quarant’anni fa, ma le cose sciocche della vita ci hanno fatto andare di qua e di là per conto nostro, lavori matrimoni geografia, e ci siamo ritrovati per caso in gennaio e io vorrei che non ci lasciassimo mai più, come quelle antiche squadre di calcio che imperiture continuano nella memoria.
Sono come quel prigioniero che dalla cella vede solo il mare e una casa bianca in mezzo al blu, l’immaginazione che diventa vita ed è la sola ormai possibile e proprio per questo non può essere fermata, neanche dall’indifferenza. Io canto perché mi piace, tutte le parole sono mie anche se gli altri le hanno scritte meglio. Io canto perché ho ancora la visione di un mondo bellissimo e aperto, un posto per tutti e senza miserie, soprattutto le mie. Quando il concerto finirà penserò già al prossimo, o almeno a cantare in bicicletta, al supermercato o nel bosco, con gli alberi che mettono nuove foglie in una primavera infinita. È una felicità e un impegno verso chi cantare non sa o non può, per mia madre, per gli amici e per i caduti di tutto il mondo. La prima canzone di stasera è Pugni chiusi, il mio modo malinconico di stare in un tempo che tradisce.
Il motivo di questa confessione? Che se muoio prima o durante si sappia almeno che andrò avanti lo stesso.
gene

2 risposte a “Io canto”
Per quanto mi riguarda leggo sempre ciò che scrivi, a volte commento a volte no.
Non so neanche se il mio commento ti arrivi.
Questo non mi preoccupa perché
ti rispondo perché i tuoi scritti mi portano a farlo, hai la capacità di portarmi a commentare istintivamente ai tuoi racconti perché particolarmente veri.
Grazie e sempre bravo sia a scrivere che a cantare, visto che ti ho anche ascoltato vivo.
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Certo che i commenti arrivano, e mi fanno tanto piacere. Ma chi sei?
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