tuttologia in direzione contraria

Senza ali Papillon

https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/alphaville-le-serie/Come-un-omino-di-Pan-di-zenzero-2.10–2026507.html

Sannezei, 25 dicembre 2023

Mi chiamo Papillon e da troppo tempo manco, esiliato per sentenza finale e poi rinchiuso oltre lo Stige degli oggetti inanimati. Papillon prigioniero in un limbo spento e non può evadere, ridotto in cenere, o sotterrato, o chiuso nell’armadio con altri scheletri, non lo so, è un presente disadorno, nessuna ipotesi di futuro e solo vaghe visioni di felicità che subito precipitano nel fiume che scorre e non vedo. Altri miei fratelli – Corbatí, Papigió, Pajarita – sono ancora in giro per il mondo agghindati alle camicie, annodati come simboli libertari e paradossali, forse festeggeranno nuovi cibi e altri pensieri, muoveranno ancora parole. I miei giorni brillanti sono finiti con la morte di Jonatan, il mio padrone da quel giorno remoto che mi comprò a Portobello; credo che non torneranno, eppure spero che un qualche Nessuno vagante mi ritrovi in questa buia inesistenza, in questo niente indesiderato, assente di eredi e dèi.

Sono Papillon, el cravatin per gli sconosciuti

Le luci con Jonatan erano sempre accese e, quando scendevamo al sud, per tutti lui tornava ad essere lo Zio; illustrava i suoi viaggi svelando l’uomo che era divenuto e desiderava essere; narrava di genti che erano rivelazioni epocali. Non tutto però sapevano di lui, giù al sud, non tutto poteva dire: qualche segreto era così inconfessabile che solo io, Papillon, lo intravvedevo nei riflessi dello specchio, nell’assistere ai suoi tremori, alle incertezze, ai disagi della sua condizione, alla solitudine.
Ho cercato di aiutarlo con la mia ferma presenza, che a lui dava quell’aria signorile, velata di malinconia senziente, impossibile da immaginare nella sua infanzia modesta tra campagne di riviera, sassaie e sterco di pecora.
Forse sono riuscito, in questo, forse nella nostra grazia ce l’abbiamo fatta a calmare i mostri, non per sempre, non del tutto.

Sono Papillon e ancora ho da dire

Ecco allora quel ricorrente giorno, sì, il più bello, o almeno lo era per me, che giungeva una volta all’anno, sempre il venticinque di dicembre, sempre in quella casa al limitare di prati bonificati da palude a campi di grano. Stretto a lui, uniti con garbo, vedevo allora rivelata e disposta davanti ai miei colori di festa una parte di mondo palpitante, un’agape in qualche modo serena, un padre cognato, una madre sorella, due bambini nipoti, una nonna madre e, in tempi ancora più remoti, un nonno padre che se ne andò anzitempo per un viaggio sconosciuto; albero e stelle, bocce luminose, pacchi da scartare, libri freschi, musiche cantate, opinioni tra Marx e il cortile, resistenza e borghesia. Evocativo lui e senza pecca io, Papillon; nessuno allora sapeva del rimpianto sleale che avrebbe addentato, e ancora morde in certe notti incrollabili.
Poi, perché così vanno le cose, certo che è così, poi tutto finì in un giorno che io riposavo in un cassetto, quando Jonatan scatenò la guerra contro uno di quei bambini, il nipote che si era fatto uomo e non seppe né accettare né perdonare, colto alla sprovvista dallo Zio con la banalità inattesa del torto fulminante. Non attraversammo più la campagna, nemmeno per andare sulla tomba della madre del bambino fatto uomo, e sorella dello Zio Jonatan. Il venticinque dicembre era stato svuotato come si fa con la secchia degli avanzi per i maiali, tra perdite di senso, dissapori e infine la morte.
Non chiesi allo Zio di ricucire lo strappo, ero muto e non mi riusciva di risalire ai suoi pensieri, o di scendere al cuore. Io, povero Papillon acceso e fiero, stupido come l’eleganza stessa, ero stato deprivato senza che mi fosse stato chiesto cosa ne pensassi. Ora, in questa notte infinita, ora che Jonatan è cenere o pulviscolo siderale, ora che ho tanto di quel maledetto tempo impantanato, questa lettera mi costa più di una pena; ma vorrei che partisse per il mondo, verso quel bambino nipote che è ormai più vecchio di me e chissà cosa detiene nell’anima, chissà se vi fermenta ancora indissolubile il veneficio del tradimento senza remissione.

Sono Papillon, senza più ali

E sia. Nel caso questa missiva venga raccolta dall’abisso in cui sono, vorrei che si sapesse di nuovo del mio desiderare, immaginare, vedere, condividere, amare, servire. Vorrei che le cose andassero così, e spero che nessuno rifiuti l’ultimo mio desiderio: un altro venticinque dicembre. Con tutte le persone, alberi, stelle, carta colorata, parole, pensieri, desiderio di rinascita, di un mondo senza confini e bandiere, senza dèi ma con un ipotetico figlio a splendere nelle coscienze senza bisogno di feroci seguaci e inflessibili riti. Vorrei vedere, in quel giorno, il bambino nipote che abbraccia lo Zio, vorrei vedere il dolce volto della madre sorella, o quello serio del padre cognato, o dei nonni suoceri, o della bambina nipote. Immutati, immutabili.
Lo so che tutto questo è nascosto chissà dove, di là, invisibile come me che, seppure condannato a una maledetta Cayenna scura e muta, affido questa lettera alla sorte e ancora anelo, sgargiante allacciato fedele, al viaggio di ritorno e oltre il fiume.
In fede e per sempre, ascoltatemi.
Papillon

gene


2 risposte a “Senza ali Papillon”

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