tuttologia in direzione contraria

La partita- Trattato sull’avidità

Questo è un estratto del libro La partita, che scrissi nel 2018. Un’opera di fantasia che ha predetto il futuro. In questa revisione ho messo i nomi veri dei protagonisti, ora che la realtà si è completata, nell’avidità miserabile

(…) Lo vedo ancora seduto là a sinistra della porta, Delfino, come un Aureliano Buendìa in attesa di un qualche tipo di esecuzione, non certo della morte. Di nome, per essere il Delfino dei suoi fratelli, ma non ne sono certo; di fatto, Delfino della sua sposa Georgette, che certo lo amava ma esprimendosi con comandi ed esortazioni. Credo di non ricordare un solo abbraccio in pubblico, nemmeno una stretta delle mani.
Neanche un: Caro, come invito alla dolcezza.
Eppure, si amavano, magari meglio di quello che siamo stati capaci di fare noi di nascosto con rose comprate e poesie sgangherate. Delfino guardava Georgette con gli occhi limpidi della mitezza mescolata alla fatica e non ha mai trasgredito a un ordine o a un ammonimento della sua amata. Al massimo dell’insofferenza prendeva il carretto di legno a quattro ruote e scendeva alla stalla, mentre Georgette volgeva altrove il suo imperio.
Ebbero quattro figli e mentre scrivo è morto anche l’ultimo, Giovanni, lo Zietto per tutti noi parenti, esiliato a Ginevra per scelta sua, nel tentativo di scappare dalle tante oppressioni che hanno amareggiato il suo essere diverso in un mondo contadino e serrato. Una figlia è stata mia madre Olimpia, anche qua vai a sapere il perché di questo nome ellenico in mezzo a fumo e letame. A sedici anni si ruppe la testa, a cinquantasette si ammalò di cancro e l’anno dopo morì, sussurrando Mamma e lasciandoci allo sbaraglio.
Gli altri due figli, Maria e Piero, passarono gli ultimi quindici anni della loro vita senza parlarsi e con la ferma intenzione di non accettare le reciproche presenze nel caso morissero. Sono morti, ancora separati, vecchi e chissà se afflitti.
Lo Zietto non ha procreato, ma gli altri tre hanno prodotto una sequela di figli e conseguenti nipoti e pronipoti, tutti mediamente impegnati a stare per conto loro. Con Delfino e Georgette in vita tutto si trattenne, poi si corrose per salsedine d’egoismo; e per incuria d’affetto, crollò.
Io che sono uno dei nipoti, vivo ormai nella piena assenza dei miei parenti e loro non mi cercano e non mi chiamano. Una rimozione collettiva, di anni e volti, parole e pensieri. Lo Zietto ha smesso di comunicare con me nell’ultimo anno del Novecento; ho lasciato che Maria decadesse all’ospizio senza mai andare a trovarla; Piero l’ho salutato da defunto in occasione del suo anonimo funerale che volle lontano; Olimpia stava al cimitero e non vi entro.
Tutto quanto era franato tempo prima per questioni di eredità, una volta morti Delfino e Georgette. Alla roba da spartire è seguita la roba da inghiottire, una scoria amara come la linfa dei salici. E non c’è stato nessun modo di rifare il compito affettivo. È rimasta solo una complicità, di che tipo non saprei dire, tra la progenie di Maria e lo Zietto superstite.
A vederla così, è una stirpe con la tragedia nel sangue, e chissà cosa sta aspettando me. Però, ci sono state stagioni formidabili, di prati sfalciati nel fresco del mattino e rastrellati nel bollore del pomeriggio; e caffè da bere a tutte le ore; e gente impegnata e operosa che alla fine della giornata parlava e cantava nel giardino della casa familiare o nella cascina in montagna. Georgette mi ha abbracciato milioni di volte, per pareggiare gli abbracci che ha negato a tutti gli altri e che per il suo essere orfana sono stati negati a lei. Delfino ha spezzato il suo pane e condiviso il suo vino con me bambino, sui maggenghi e nei campi.
(…)
Poche righe per spiegare, come promesso, perché lo Zietto Giovanni smise di parlarmi. Amoroso e aperto, ha condiviso con i suoi giovani nipoti la sua progressiva veduta del mondo. Musica, libri, idee. Marxista convinto, partecipò a cortei, manifestazioni, progetti. Ma nel privato, decenni di psicoterapia, per capire come fare a liberarsi dai suoi demoni. Ma a noi, non importava, non ci facevamo nemmeno caso e soprattutto non lo sapevamo.
Con lui, scambi epistolari, accoglienze quando andavamo nella grande città, vicinanza nelle turbe dell’adolescenza. Ma anche pranzi di Natale dove Olimpia lo considerava come un povero da accudire (e così faceva Maria, Piero no). Pranzi rituali e sbiaditi, fino a quando non tiravamo qua il giradischi o Calvino. Mi piaceva lo Zietto, dolce e incapace di guidare l’auto, incoronato come un re, suo malgrado, quando tornava, due o tre volte all’anno. Una volta morti Delfino e Georgette, aveva ereditato la casa familiare e l’aveva affittata. Per aiutarlo, ne rifeci i pavimenti nel tempo libero – lui era incapace di piantare un chiodo. Mi dilungai, destreggiandomi tra gli impegni al giornale, il mio lavoro di quei tempi.
Un giorno mi chiamò in redazione dicendo che era stufo di aspettare, che a ogni giorno sfitto perdeva soldi. Finii il lavoro, non mi chiamò, non si fece vedere, non disse. Nemmeno nel decennale e nel ventennale della morte di Olimpia si presentò, lui che deambulava per cimiteri nel giorno dei morti con la faccia di circostanza. Lo rividi al funerale di Maria e mi salutò come se non fossero passati quindici anni di mutismo. Vaffanculo, pensai. Sapevo che fino alla morte di uno di noi due non ci saremmo più scambiati parole. Un giorno lo chiamò mia figlia, forse perché lei doveva recuperare pezzi di un passato che non conosce. Aveva fatto bene.
Quando tornava da Ginevra, non andava a casa dei nonni perché non è più sua, l’aveva data a un bisnipote e per questo aveva dovuto incassare il ripudio eterno di Piero. Scusate le miserie. Georgette li avrebbe trafitti, Delfino compatiti e io me ne frego, non so gli altri.
Già si può capire, anche senza leggere sette volte i Cent’anni di Marquez, che la nostra solitudine non ha eguali. Forse, ogni saga familiare insacca una buona dose di meschinità ma, come per le famiglie infelici, ognuna è meschina a modo suo. Delfino e Georgette, nella loro purezza così distinguibile, procrearono splendidi grigiori, dei quali non vorrei più parlare, ma credo che da qui alla fine ricapiterà. Negli armadi abbiamo ossa che ballonzolano tra le grucce di vestiti nuovi e smessi. (…)

gene


2 risposte a “La partita- Trattato sull’avidità”

  1. Molto interessante mostra in modo molto descrittivo e sincero uno spaccato del nostro piccolo cosmo. Mi piacerebbe leggerlo nella sua versione completa e integrale se possibile. Questo estratto mi ricorda una frase della canzone di Francesco Guccini “Canzone di notte 2” dove narra

    “O forse non è qui il problema
    e ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi
    e ognuno costruisce il suo sistema
    di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali,
    scordando che poi infine tutti avremo
    due metri di terreno…”

    Aleardo Zaccheo

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