tuttologia in direzione contraria

Il Ministero della Sfortuna

Ushuaia, luglio 2025

Il mio lavoro è qui. Era qui. Da queste mura non sono mai potuto uscire perché mi pensavo indispensabile. Mi assunsero un giorno dopo che avevo eliminato il gatto nero della signora Rosa Capone. Non fu una scelta proprio mia: fui avvertito del compito da un signore attempato che si presentò come il cugino di Rosa Capone e che non avevo mai visto e mai più rividi.
– Perché non lo uccide lei? – chiesi con logica, e senza nessun tono di rimprovero.
– Non ne ho il cuore – rispose lui avvilito. – E tra pochi minuti devo prendere il treno. La prego, faccia quel che le chiedo.-
Non potei dire di no. Notai che era vestito come me, aveva la stessa statura e forse anche gli stessi capelli. Fui contento di vederlo andare via.
Ammazzai il gatto della signora Rosa Capone con un piede di porco.
Il mattino seguente bussarono alla mia porta. Due signori. Mi condussero fuori città, attraverso la campagna disabitata fino a un grande edificio. Un cancello e poi un vasto cortile. Salimmo le scale dell’edificio e i due signori mi lasciarono davanti a una porta, dicendomi di aspettare con pazienza.

Mi assunsero a tempo pieno nell’edificio. Il mio compito, per tutti e sette i giorni della settimana e per i dodici mesi degli anni di lavoro che mi toccarono, fino a ieri, era vigilare e coordinare, e in seguito agire con capacità di discernimento.
Capo degli Inservienti e Ministro della Sfortuna. Due incarichi. Questo facevo. Se per la prima delle mie mansioni bastava la mia innata capacità di comando e delega, e quindi non starò a dilungarmi sulla sua noiosa e banale ripetitività, per la seconda mi toccava fare tutto da solo, con inventiva e occhio svelto, visto che nessuno era all’altezza della mia competenza e reattività agli accadimenti.

Nel tempo ebbi molti assistenti, ma duravano poco perché nei miei rapporti redatti con scrupolo sollevavo severe e fondate critiche sulle loro capacità. Dalla direzione insistettero però sempre per affidarmi nuovi colleghi, che mi erano di grande intralcio. Più volte chiesi in modo accorato alla direzione di poter proseguire il lavoro da solo. Ma mi si spiegò che la formazione di altri addetti alla Sfortuna era necessaria, nel caso io mi fossi assentato per qualche importante e inderogabile motivo. Non mi assentai mai e pure a Natale e a Pasqua tutto passava sotto il mio controllo, e le feste erano davvero spensierate e senza minacce occulte. Solo una volta al mese rimanevo nella mia stanza a riposare, nutrito e servito come un principe. Poi, dopo qualche tempo, potevo stare nel mio alloggio un giorno per settimana, ma non ero tranquillo. Per l’inaffidabilità dei miei assistenti, il giorno seguente c’era sempre un lavoro enorme. Lenire gli spaventi degli ospiti dell’edificio, placarne le turbe emotive e comportamentali.

Nessuno mai venne a farmi visita. Solo missive anonime, lettere senza francobollo che comparivano sul mio letto a intervalli di tempo irregolari e dilatati. Tutte con lo stesso testo.
“Quando uscirai, noi saremo lì ad aspettarti. È una promessa.”
Non avendo identità, niente ansia d’attesa, nessun pensiero.

Era talmente gravoso il mio compito, che di notte sognavo di specchi rotti, di numeri volanti, di oscuri tarocchi. E tutto si ripresentava appena desto. Non appena definiti i compiti del personale, correvo a perlustrare l’edificio in cerca dei segni e delle manifestazioni, instancabili, della Sfortuna. Sequestravo le carte di chi giocava a scopa, impedivo il passaggio sotto le scale degli imbianchini. Di mio, per esperienza, gettavo sale alle mie spalle, incrociavo le dita, facevo rispettare le fasi lunari, divinavo nei fondi di caffè. Giorni interi a camminare all’indietro e a scandagliare la cucina in cerca di spezie maledette e pentole di rame ribollenti. La mia tuta da lavoro, sempre immacolata, non recava il mio nome per poter agire in completo incognito, privando di ogni sospetto i frequenti incantatori, regolarmente ridotti all’impotenza.

Mi rilassavo un po’ alle recite mensili, sul palco del teatro che occupava l’ala ricreativa dell’edificio, indossando i panni che mi si attagliavano ottimamente, quelli del Cavaliere dalla Triste Figura. Potevo allora, in quel ruolo, intavolare discorsi e moniti sui nocumenti che alcuni uomini senza compassione e coraggio arrecavano all’edificio.
– Vedi caro Sancho, l’uomo vile fa sempre la voce grossa, per mascherare la sua cagionevolezza di carattere, e cerca di sopraffare la mitezza di spirito di coloro che non possono difendere la loro dignità. L’uomo vile addossa al nemico illusorio tutte le nefandezze e le ubbie della sfortuna che gli tocca, anche se lui vive negli agi e le damigelle lo concupiscono. In questa mollezza infida, l’uomo vile escogita i tormenti da infliggere agli innocenti. Ma il mio forte braccio, chiamato in questo luogo per mettervi ordine e magnificarne il progresso necessario alla quiete del vivere, non tremerà di fronte al menzognero agire di costui. –
Indi spaccavo la mia durlindana immaginaria sulle schiene dei felloni.
Gli applausi scrosciavano e alcuni valenti Domestici mi conducevano poi nel mio camerino, permettendomi con alcuni intrugli miracolosi di riprendere le forze, necessarie il giorno seguente al combattimento contro la viltà dei menzogneri e dei pavidi, messi malefici della Sfortuna.

Ma il destino non sta a guardare e agì. Uno strano caso mi portò davvero sfortuna. Era un giorno di tempesta, le inferriate delle finestre filtravano allucinazioni di lampi, le fondamenta vibravano come se i tuoni nascessero nel sottosuolo. Tutti i pazienti, anche quelli legati ai lettini, erano in preda al terrore. Uno, che già tenevo d’occhio da tempo per le sue strane manie che scatenavano contrattempi che non descriverò, si alzò dalla sua sedia rovesciando il tavolo dei medicamenti, e afferrò un ombrello. Mentre rombò un boato più forte del cozzare di mille locomotive, lo aprì ridendo nel suo modo beffardo. Un gesto intollerabile, che avrebbe scatenato tutte le cateratte degli inferi. Mi gettai su di lui strappandogli l’ombrello di mano, io sapevo che la Sfortuna non poteva nulla se l’oggetto scatenante fosse stato disinnescato nei primi cinque secondi. Cademmo a terra e la tempesta cessò di colpo. Ma lui morì, si era rotto la testa sul termosifone.
Mi punirono. Fui rinchiuso nella stanza dei materassi, isolato da tutti. Per anni entrarono solo due Domestici per le punture e il cibo, che spesso rifiutavo perché di infima qualità. Fui degradato, in quell’esilio; privato dei sogni e delle mansioni. Il Ministero passò in mani a me ignote. Il tempo passò così lentamente che quando uscii dalla stanza dei materassi non riconobbi più nessuno.

Stamane, in questo giorno che mai mi aspettavo potesse giungere, mi hanno fatto visita gli Ispettori e con soddisfazione hanno sancito: – Lei è premiato per la sua costante e fedele adesione al bene dell’edificio in qualità di Ministro della Sfortuna. È tutto a posto. Ora, è tempo, si goda la meritata pensione. Rimarrà comunque qui, con tutti gli agi che la sua posizione, benché decaduta, merita. Senza doversi più indaffarare nelle gravose attribuzioni necessarie a quel bene comune, che lei ha servito con coscienza fino a quando ha potuto. –

– Signori! Non è accettabile dalla mia lucida ragione e dal mio cuore impavido. Con tutto il lavoro ancora da svolgere, poiché la vedo l’inettitudine di chi mi ha sostituito e non sono pazzo, non posso accogliere questa ossequiosa, ma inopportuna, proposta. – Ho obbiettato con una fermezza d’animo tale da lasciarli senza fiato.
Rassegnati alla sconfitta da tali parole di responsabilità e a causa della valenza retorica con cui le vestii, hanno allora chiamato i due Domestici che con la forza bruta mi hanno portato fuori dall’edificio, condotto lungo il cortile, spalancato il cancello e chiuso fuori.

Fuori, seppur spaesato, riconosco subito il mondo da cui mancavo da anni. Quanti? Una campagna brulla e diaccia, in niente cambiata. La stessa tetraggine la ammanta come in quel lontano giorno in cui mi condussero nell’edificio. L’odore stagnante di terra grassa serra la gola. Ci sono nuvole nere e basse, ma sulla linea dell’orizzonte si delinea una lingua rosseggiante. Scorgo immediati segni scaramantici. Il mio occhio è allenato. E come non vedere le due sole figure in quella desolazione. Mi aspetta – come sapesse che mi avrebbero cacciato senza riconoscenza – una donna. Mi guarda con una malignità che solo la vecchiaia esalta.
– Eccoci. Avevamo promesso. –
Rosa Capone. Il sangue mi si ghiaccia. Al suo fianco, un enorme gatto nero con occhi satanici. Avanza verso di me.

gene


Una replica a “Il Ministero della Sfortuna”

  1. “Wow, che racconto potente e intriso di un’atmosfera cupa e surreale!
    L’intera storia ha un senso di prigionia, dovere, sfortuna, e una sorta di destino ineluttabile che si ripresenta alla fine come un incubo che torna a bussare.”

    (Ines Arelloa)

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