Gastone Albertoni è stato licenziato da laRegione, quotidiano nel quale ha lavorato 33 anni
(ahi, le ricorrenze…). Una notizia che mi ha toccato nel profondo per due motivi: uno, Gastone è più di un amico mio, è un fratello di idee, musica, bocce, calcio, bibite, passioni e vita; due, nel 2004 ricevetti lo stesso trattamento dallo stesso giornale, guidato da Matteo Caratti e prodotto da Giacomo Salvioni e quindi so cosa si prova di fronte all’ingiustizia e alla ferocia di chi pensa solo al profitto da maturare sulla pelle di chi lavora.
Senza una motivazione plausibile, con la malignità ottusa degli assassini (questo è un assassinio professionale), hanno lasciato per strada un uomo di 56 anni che nel giornalismo era una voce potente e autorevole, un uomo che ha dato tutto al giornale fin da quando si chiamava ancora Dovere e che a quel tempo di certo rispettava i suoi lavoratori. Nel mondo dello sport e dell’hockey in particolare, Gastone ha cantato e raccontato gesta, ha vissuto in redazione lavorando come un mulo, con il suo carattere ombroso che cela allegria e intelligenza, ha tenuto viva la memoria storica dello sport e dell’etica. Sempre onesto e argomentativo, scomodo e sincero. L’hanno licenziato e a difenderlo non ci sarà nessuna categoria, solo quelli come me che lo amano.
LaRegione, che tanto critica i licenziamenti selvaggi (non da ultimo quelli alla RSI) dall’alto di un presunto progressismo, rimarrà impunita anche questa volta. Ricordo che la redazione sportiva in dieci anni è stata decimata senza pietà: oltre al sottoscritto, sono stati licenziati senza motivo spiegato Rolf Stephani, Fabrizio Maggi, oltre a una serie di tipografi e compositori, per non dire di altre figure professionali che hanno mandato avanti il giornale per anni. Gastone è l’ultimo della serie, ma non sarà certo l’ultimo della storia di quel giornale ad essere decapitato dalla mannaia in mano a Salvioni e accoliti.
Gastone Albertoni deve ricostruire la sua vita a 56 anni, e ce la farà. Ma questa vergogna rimarrà come un colpo di mazza nella pietra.
Se questo è un giornale… se questi sono uomini degni…
Spero che la loro coscienza bruci ogni mattina, ma non succederà e continueranno nell’ipocrisia e nella selvaggia opera di demolizione dei lavoratori e delle idee. Mi vergogno io per loro, se non ce la fanno.
gene
Postilla
Diffondete pure, a volontà.

gli anni e i secoli. Bello perché non sai cosa potrà succedere, banale perché tutto quello che potrà succedere è ineluttabile. Però questo lunedì d’aprile contiene un’attesa malefica, che contrae i muscoli del petto premendo sulle ossa. Tra poche ore potrei ritrovarmi a scrivere o a brancolare nelle nebbia improvvisa, tra il desiderio di cambiare e l’obbligo di farlo. Tra poche ore svelerò il mio nome e la mia storia, se sarà necessario farlo, altrimenti rimanderò, forse a mai. Toccherà aver pazienza, più voi di me, perché io più che altro sono stordito dall’attesa. L’attesa di qualcosa che arriverà e che non ho né avrò possibilità di determinare. Potrebbero essere trent’anni di guerra o di pace, non lo so, dipende da come finirà l’attesa e quale volto mi mostrerà il mondo. Non ho dormito in questi ultimi giorni, mi sono visto vecchi film e repliche di trasmissioni mediocri, molto sport. Ho ascoltato mio figlio. Sono passato e ripassato dal bar, inquieto. Ho fatto più volte visita ai miei vecchi genitori, ai quali non ho potuto dire ancora niente perché niente ancora so. Ho stanato motivi, tutti plausibili, tutti falsi e spietati. Mi sento una pedina di un gioco del quale non ho più controllo. Oggi saprò, l’attesa finirà. Vada come vada, penso che nulla sarà come prima. Questo lunedì e questo aprile sono diversi. Attendo.
lavoro finiti in cenere”.
Ponte Tresa, luogo incerto, genti sconosciute e temute senza nessuna vera ragione. Un preconcetto. Il campetto era un campaccio, piccolo e pelato come un piccione vecchio. Eravamo ragazzi, da poco usciti dalle ricreazioni con il loro calcio rude e selvaggio, fatto di partitelle di dieci minuti e risultati impossibili, tipo undici a sette o diciotto a zero. Difficile trovare una quadratura su un campo normale, con maglie e numeri a pesare sull’anima. Se a scuola conoscevamo i polli e non li sceglievamo mai, in un campionato vero era come affrontare spedizioni in altre aie di contadini coi fucili spianati.
divano di casa, in lacrime, col pà che, da sempre affascinato dalla Germania, si era votato alla totalità dell’Olanda. Mi mise una mano sulla spalla:
individuale del termine, da giocatore, da allenatore, da dirigente e da libero pensatore. Ha saputo mettere insieme due cose all’apparenza inapplicabili e estreme: l’individualismo ribelle e la visione collettiva di tutto. Cruijff è arrivato alla luce del calcio alla fine degli anni Sessanta, quando questo gioco era una serie di sfide individuali sullo stesso campo, e se l’è portato sulle spalle per approdare alla totalità d’espressione di squadra. Ha cambiato tutto, vestendo le maglie dell’Ajax, dell’Olanda e del Barcellona. Queste squadre ancora oggi sono costruzioni con le fondamenta nell’insegnamento tecnico ed educativo del mitico numero 14, non derogano dalla loro ricerca di bellezza collettiva, sfoderando giocatori che da soli sono già l’immagine del talento e dell’educazione.