Il Viale della Stazione appariva. Per noi che venivamo dalla periferia estrema del
Bellinzonese era proprio un’apparizione. Abituati alle strade di ghiaia e allo stradone in asfalto, quel porfido e gli alberi di lato erano esotici. Anche noi eravamo esotici agli occhi cittadini, forse per i pantaloni corti passati dai cugini e con il fuoricorso che si vedeva dal consumo posteriore. La mamma, bellissima, ci stringeva le mani avanzando con la sua gonna a pois. Non è cambiato tanto il Viale, solo nella parte bassa s’è fatto più rilucente e arioso, senza traffico e col porfido zecchino che per fortuna ha sconfitto l’idea cocciuta del granito. Non si sa dire esattamente quale edificio del Viale sia sparito, commutato, distrutto o dipinto, ma di certo allora era una vera città con cose che nelle valli non si trovavano, se non quando passava (di rado) il marsciauro con il suo furgone ambulante. La mamma diceva: “Andiamo al Comercioff”, proprio così (in realtà, scoprimmo a vent’anni che si trattava del Commercio FF, che pare esista ancora, anche se dislocato). Roba semplice, buona di stoffa, per addobbare casa o vestire noi campagnoli.
Il Viale era il cuore commerciale di Bellinzona, vi si trovava di tutto, dalla tappezzeria al dentista, dall’edicola alla farmacia. Erano appena finiti i Sessanta e ancora resisteva questa netta distinzione tra provincia e Capitale. Bellinzona era un riferimento, un polo d’attrazione come può esserlo Londra nel mondo globale e low-coast di oggi, con l’Innovazione quale Bengodi al quale attingere moderatamente col consenso della mamma: un’automobilina, un soldatino.
Negli anni giovanili, il Viale della Stazione diventò il raduno del sabato sera, per noi che scendevamo con la Posta e tornavamo in treno a Claro e poi traballando a piedi fino a Preonzo. Un pienone cittadino che oggi nemmeno si riesce a immaginare, ora che alle nove di sera sul Viale si può girare biotti che tanto non ti vede nessuno perché nessuno c’è più.
Non era più bello allora il Viale, eravamo più giovani noi.
Ah, una cosa irrinunciabile alla quale avemmo accesso dopo i diciotto era il Forum 2, che da sempre pensavamo fosse un’altra sala del cinema e che invece era solo un altro mondo rispetto alla Disney del Forum normale. La Bavarese, la Casa del Popolo stanno ancora lì, la prima meno ruspante di allora, la seconda più nostalgicamente socialista.
Il Viale della stazione era anche il Carnevale, con i bar a fare da via crucis da seguire nelle prime escursioni goliardico-alcoliche. Era un Rabadan più spontaneo e senza pedaggi, meno organizzato e più popolare. L’anima bellinzonese, che somiglia a quella napoletana, balzava fuori vestita di sgargianti ingenuità. Diciamo che il confronto con le edizioni odierne è impietoso, ma anche in questo caso è certamente perché ci siamo imbolsiti noi.
Il Viale ha visto tutto e ancora lo fa. Chissà che con l’arrivo di Alptransit e con la nuova stazione non trovi un altro modo per essere se stesso. L’idea che brilli ancor di più è forte e chiara. Sarà lustro e ordinato come le case dopo le grandi pulizie di Natale, quando tutto odora di cera per mobili e pavimenti o di bucato per tende e tovaglie. Non ci saranno ragnatele o foglie per terra, e nemmeno traffico e posteggi o alberi storti. Come nelle case appena lucidate, anche al Viale si potrà accedere solo su permesso e con le apposite pattine ai piedi. Uno spazio pubblico che andrà oltre il dovuto rispetto a chi lo tiene in ordine per diventare un museo a cielo aperto, con orari regolamentati e profumo di formalina?
Speriamo di no, speriamo che il Viale della Stazione riscopra la sua anima conviviale e un po’ trasgressiva. Almeno quel tanto che basta per lasciare a noi, che non siamo più abitanti dei paesi del Bellinzonese ma cittadini dei quartieri di Bellinzona, il gusto di fermarci al Comercioff a immaginare tendaggi. O di sostare alla Bavarese a far niente in compagnia, con gli scarponi ai piedi, aspettando la riapertura del Forum 2. Quello vero.
gene
Postilla
Il futuro è un’ipotesi, forse il prossimo alibi che vuoi
Enrico Ruggeri


Natale e Carnevale e pure quella farsa delle votazioni su Gottardo e famiglia e espulsioni di criminali, le catene cominciano a pesare. Le spezzerò domani, con la salita a Sonlerto dove ci aspettano il fuoco, la musica, la terra e l’amore. Non è una fuga dalla realtà decadente, tutt’altro: è sciogliere le vene per prossime battaglie contro un mondo fittizio che crolla.
cominciò a ruotare su stesso, come una vite nel legno, fino a spaccarsi nella torsione di pretese e nell’attrito rovente dei soldi che non bastavano più e mai. Il governo aveva vuotato le tasche al popolo nello stesso modo in cui i sovrani imponevano decime ai sudditi millenni prima. Per la maggior gloria, si dispersero miliardi per grandi opere e vie di comunicazione che avrebbero dovuto favorire il turismo, e quindi soldi a palate. Funzionò in qualche modo desolato fino al giorno che nessun viaggiatore si fermò più nel piccolo paese perché non c’era più niente da vedere, niente da sentire, niente da capire. Né cultura, né natura, né gente con la quale sedersi a mangiare, raccontare, ascoltare, suonare, amare.
Ticino caro, paese mio,
Quel pomeriggio a Mombasa era sabato e si giocò a calcio, senza scherzare. Il Roby mi ha scritto che è ora di farne una storia, e l’immagino, lui che è gourmand, nel pregustare gesta disastrate tra l’epica e la farsa. Le figure leggendarie che animarono quella partita di calcio hanno poi cercato per anni di scampare alla retorica dell’uomo bianco e conquistatore.
villeggianti. Alcune squadre di bellinzonesi erano passate di lì prima di noi, senza portare a casa nemmeno un pari. Questa specie di diaspora della nostra regione era nata quando il Gianca, padre del Roby, aveva mollato l’impiego statale alla galleria del San Gottardo per fare impresa lì. Tra inviti, conoscenze e avventure, organizzava ferie per tutti, e tutti giù in Kenya, con l’aria di quando si va in Mornera in teleferica.